Le bolle della Malvizza di
Mario Sorrentino
foto di franco D'Addona
Le
bolle sono un fenomeno vulcanico, assimilabile vagamente ad una solfatara,
con fuoruscita di gas e fango. Le emissioni mefitiche aumentano d’intensità
e spettacolarità dopo le piogge. Il luogo è una “Mofeta” e nei pressi doveva
trovarsi un santuario pagano dedicato alla dea Mefite, divinità degli
inferi.
La Malvizza è una contrada di Montecalvo Irpino, situata ai margini
nord-orientali dell’Appennino campano. Frequentata dai cacciatori del
paleolitico, abitata dal neolitico, è attraversata dal tratturo, detto la
“Via Della Lana”, che da Pescasseroli (AQ) consentiva, sino alla metà del
1900, ai pastori abruzzesi la transumanza con le greggi fino a Candela (FG).
L’area fu conquistata prima dai sanniti e poi dai romani. Questi vi fecero
passare la Via Appia-Traiana che da Roma portava sino a Brindisi. Molti
reperti sono stati ritrovati nell’area, appartenenti al neolitico, all’età
del Bronzo e del Ferro, all’epoca sannitica e a quella romana. Resistono
alle ingiurie del tempo alcuni ponti romani, alcuni dei quali ormai diruti.
Le persone grasse erano ben viste dalla gente. Sovente erano invidiate
perché la pinguedine era considerata salute, giacché essa era la conseguenza
d’abbondante nutrizione e costituiva una riserva in caso di carestie.
Relativamente a questa leggenda esiste anche una seconda versione che io ho
raccolto, ma è tuttora inedita. San Nicola sarebbe passato per la taverna e
avrebbe liberato tutti i bambini che l’oste malvagio teneva chiusi nella
cassa, per poterli ammazzare e adoperarne le carni come pietanze per gli
avventori. Alcuni luoghi, particolarmente suggestivi o notevoli per altezza,
ubertosità o anche perché orridi, paurosi, spesso nelle credenze popolari si
rivestono di un’atmosfera che, per il diritto o per il rovescio, ha a che
fare con il divino, l’Aldilà. Basti pensare alle varie porte dell’Averno,
per i nostri progenitori latini o latinizzati, agli alti luoghi su cui si
elevano templi, ai boschi sacri, ecc. Un eminente studioso delle religioni, Mircea
Eliade, in un suo studio, Images et symboles, Parigi, 1952,
propone un’efficace sintesi del simbolismo, legato ai luoghi sacri,
definendolo con il termine di centro. Il centro, per Eliade, è il
punto di intersezione tra i tre livelli nei quali, in modo universale, i
popoli della terra suddividono il cosmo: il Cielo, la Terra e gli Inferi.
Parlando del centro egli dice: “E’ qui che può accadere una frattura dei
livelli e, nello stesso tempo, stabilirsi una comunicazione tra queste tre
regioni”. Ora,
nel componimento di Siciliano intitolato Li ‘mbóddre (Le Bolle), è
narrato che un taverniere, che dava da mangiare carne umana ai suoi ospiti,
è scaraventato da Cristo, che passava di là, all’Inferno insieme alla sua
taverna. Dopo di che, in quel luogo, la terra ribolle un po’ per
avvertimento ai peccatori, forse, e un po’ perché è rimasta aperta la via
per l’Aldilà. Per la nostra gente è fuor di dubbio che lì vi sia uno di
questi centri di cui dice Eliade. Lì il divino, l’umano e il demoniaco (con
una particolare commistione di questi due ultimi livelli, se si pensa
all’antropofagia) sono entrati in contatto e restano in contatto. Perciò,
per me Li ‘mbóddre è un testo di alta rilevanza folclorica e
conserva, rivestiti di forme cristiane, aspetti delle credenze primitive dei
nostri antenati irpini. E ciò per un’altra riflessione legata alla teoria
del centro. In ogni cultura si crede che presso il centro d’intersezione dei
tre livelli cosmici, si manifesti qualcosa del Caos originario. Un qualcosa
che, la palude ribollente delle nostre campagne testimonia molto
efficacemente. Un altro elemento mescola forse contenuti sacrali (il rituale
della mietitura, di popolazioni trasformatesi da cacciatori in coltivatori?)
e, chissà?, storici (l’antropofagia delle grandi carestie intorno al
Mille?). Lascio a voi l’approfondimento della questione.
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