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Storia dell’Irpinia

I Giacobini Montecalvesi e la Repubblica Napoletana del 1799 (24 Gennaio-14 Giugno 1799) - Seconda parte

Montecalvo Irpino

 

di Antonio Stiscia

Il 14 giugno 1799 finisce la Repubblica Par­tenopea, il Cardinale Fabrizio Ruffo a capo di un esercito di popolani, ma anche di briganti e malfattori, entra trionfante in Napoli per re­staurare la Monarchia Borbonica, che da quel momento preda degli Inglesi, dei Briganti e incapace di riportare la convivenza civile,
attuerà una politica di diffidente autarchia, anticamera della propria fine dinastica e dissolutrice del regno. Ma che cosa è accaduto a Montecalvo in questi pochi mesi di Repubblica? I numerosi fatti sono stati ben narrati e raccolti nel bellissimo libro di Vittorio Caruso “La repubblica partenopea del 1799…….” che invito a leggere e che ringrazio pubblicamente per la capacità di sintesi storiografica e per la documentale ricerca storica, condizioni imprescindibili di una saggistica moderna. Per questi motivi eviterò di saccheggiare il suo libro, evitando di citare i fatti narrati e frutto di paziente ricerca, ma voglio stuzzicare il lettore e l’appassionato di storia, riferendo che nel suddetto libro vengono riportati gran parte degli atti giudiziari e degli avvenimenti della Montecalvo Repubblicana, con dovizia di nomi e famiglie ancor oggi presenti e pro­speranti. Il ritorno del Re e della Monarchia, non fu indolore, anche perché i traditori erano stati proprio coloro (I nobili) che avrebbero dovuto avere maggior interesse a conservare lo status quo. La vendetta perciò si dimostrò più cruenta che mai, per il generale principio che non si sputa mai nel piatto in cui si man­gia, e anche perché era il popolo che chie­deva vendetta, pronto a ripagare i soprusi di una classe di comando feudalizzata e bigotta. Avvenne nel reame di Napoli, l’esatto con­trario di quel che avvenne nella Rivoluzione Francese, qui da noi, il Popolo, in nome del re perseguitò i ricchi borghesi e i nobili traditori. Al Re non gli parve vero tale ottimale situa­zione socio-politica, avrebbe preso i classici due piccioni con la fava del popolo, ma an­che questa volta non aveva fatto i conti con la storia, con quel giovane generale corso Napoleone che a capo di un fortissimo esercito, andava sbaragliando le monarchie europee, portando i semi della libertà della rivoluzio­ne francese. Il Re Borbone dovette frenare il  popolo, per frenare Napoleone, ma il gioco diplomatico annientò ancora una volta le sue prerogative e allorché il Corso divenne Imperatore, si capì che Napoli stava per ridiventare  Francese, e quei tanti giacobini graziati o in esilio, avvertirono che il vento stava per cam­biare direzione e che toccava a loro ripren­dere le redini del governo. Con Murat, i Re­pubblicani veraci, pur turandosi il naso, non disdegnarono la collaborazione, ben sapendo che era il fine ad interessar loro, non il mezzo.
Sebbene la Francia avesse fatto di tutto per preservare la vita dei tanti aderenti alla Repubblica Napoletana, molte furono le vite stroncate, spesso le migliori e i migliori in­gegni. Si sa che ogni grande ideale comporta un grande sacrificio e fu per questo che subito dopo la capitolazione repubblicana, centinaia di intellettuali, di veri nobili, di veri preti e di giovani liberali, vennero stroncati nell’esi-stenza ma non negli ideali, che anzi si raf­forzarono e si cementarono nel tessuto della Società civile. I Montecalvesi non subirono particolari condanne, il paese seppe ritrovare la propria armonia, e con l’aiuto dei tanti re­alisti e sanfedisti e la disponibilità dei notai del tempo, si ebbero attestate testimonianze di leali sudditi, che mitigarono le responsabili-tà dei rivoluzionari. Fu smorzata sul nascere qualsiasi voglia di vendetta, che si consumò con alcune denunzie fatte, però, fuori comu­ne, ma prontamente smentite da una saggia interazione tra la ricca Borghesia e la poten­te classe clericale, che contava papali colle­gamenti e intrecci familiari degni del miglior  ducato rinascimentale.
Non poteva perdere la vita chi si era limitato a piantare qualche al­bero della libertà nel Febbraio del 99 (alberi prontamente estirpati col cambio di governo), né tanto meno chi si era macchiato di crimini ideologici, senza però far del male a nessuno, né attentare alla vita di alcuno. Potevano mai essere condannati i Repubblicani Acquanetta e Lorenzi? Un solo Montecalvese rischiò veramente la vita, quel giovane studente di medicina, nonché prete -Domenico Stiscia- che con i colleghi Pucci e Grossi, si era reso protagonista dell’avvenimento-scintilla della Repubblica Napoletana: la presa di Castel S.Elmo, l’impianto del primo albero della li-bertà e la distruzione dei ritratti dei sovrani, in nome della libertà ed uguaglianza tra gli uomini. Pucci e Grossi furono condannati a morte, il prete Domenico Stiscia, Egidio Da­miani e altri, condannati all’esilio vita natural durante, sotto pena di morte in caso di ritor­no. Particolarità del provvedimento reale del 12 Febbraio 1800, è la descrizione precisa e particolareggiata di questo Montecalvese mio antenato, di anni 38, figlio di Alessandro……
che riuscì a salvar la pelle perché prete e for-se per intercessione del Santo Padre su quel Cardinal Ruffo, arbitro dei destini del regno. Come ho gia raccontato in un altro mio picco­lo saggio, questo giovane prete troverà rifugio in Francia, ritornando sotto mentite spoglie solo nel 1805, con Napoleone imperatore e con un Regno (quello di Napoli) che stava per cambiare dinastia. Il tempo si sa, è la miglior medicina, e gli indulti reali sempre più gene­rali e sempre più ampi, agevolarono il ritorno del nostro concittadino alla vita frenetica e irrequieta a cui era abituato. Riprese gli stu-di di grammatica e drammaturgia, riaprendo la scuola pubblica, senza tralasciare lo studio dell’organo, di cui ha lasciato alcune compo­sizioni. Continuò, soprattutto a propugnare le sue idee, divenne naturalmente carbonaro e Maestro Venerabile della Loggia Massonica Montecalvese, che lontana da quell’anticle-ricalismo, si connotò di uno spirito diverso, tant’è che si ascrive a questo periodo il portale del Palazzo Stiscia, ricco di fregi massonici, in aperta sfida al potere costituito e forse come
segnale di una visione nuova del mondo, in un sano equilibrio collaborativo tra lo Stato e la Chiesa. (cfr. Vincenzo Gioberti). Ritro­viamo Don Domenico, protagonista nei moti del ’21, con quel Morelli e con con quel Ge­nerale Pepe, legati alla storia di questo nostro paesello, per poi rivederlo presente e ope­rante nel ’49, artefice nella Repubblica Ro­mana, per i cui meriti fu nominato segretario di camera di S.S. Pio IX. La storia continua e questo umile scritto, nasce dal fatto che la recente storiografia ufficiale, a carattere com­prensoriale e provinciale, che si alimenta del compiacimento di una deputazione ignorante e non delle fonti, rischia di privare definitiva­mente i nostri paesi di una serie innumerevoli di testimonianze, che andrebbero recuperate e trasmesse ai giovani studenti, evitando di sperperare denaro ed energie per depliants di dubbio gusto e di patinata inutilità (non vi si accende nemmeno il fuoco), che attirano un turismo predatorio e sensazionalistico, impedendo così di costruire e alimentare la diga della nostra millenaria cultura, unica fonte all’arrembante aridità dell’uomo moderno.

 


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