“Prudenza,
perché ci sono le targhe bianche!” ricordo di aver sentito dire in un
lontano dicembre degli anni settanta al fattorino rivolto all’autista del
pullman che ci riportava da Ariano. Egli voleva con questo significare che
bisognava guidare l’autobus con maggiore attenzione del solito perché
erano giunti in paese, per le vacanze di Natale, gli emigranti dalla
Svizzera e dalla Germania, le cui macchine avevano appunto le targhe di
colore bianco. Era necessario fare attenzione perché, secondo il
fattorino, il pericolo era incombente per la genetica incapacità dei
nostri concittadini di guidare una macchina!
Quelle poche
stupide parole, che provocarono una sguaiata risata dell’autista e di
alcuni presenti, denotavano un tale disprezzo per gli emigranti che a me,
quindicenne figlio di emigrante, ferì profondamente. Quel senso di
superiorità che serpeggiava in chi era rimasto a casa propria, non di rado
a costo di vergognosi compromessi con la propria coscienza, svenduta a chi
per interessi di bottega faceva mercimonio della cosa pubblica,
mortificava profondamente la sensibilità di chi, escluso a priori da ogni
leale competizione, doveva anche sostenere gli oneri di quel sistema
clientelare.
L’episodio del
fattorino mi è tornato alla mente di recente in occasione di un mio breve
soggiorno in Svizzera. Mentre mi aggiravo per il centro del paesino in cui
ero ospite vedevo le vetrine addobbate come da noi, con gli stessi
prodotti, delle stesse marche, pubblicizzati con gli stessi slogan. Da uno
sportello bancario ho potuto prelevare contante con la mia carta bancomat.
Le macchine in giro erano uguali a quelle in circolazione da noi, anche i
colori delle targhe ora si assomigliavano. I prodotti in vendita nei
supermercati erano gli stessi reperibili da noi. I telefoni cellulari
usati dalla gente erano delle stesse marche nostre, le suonerie identiche.
Molte insegne dei negozi erano scritte in inglese, le altre ovviamente in
francese: entrambe le lingue più o meno conosciute, perlomeno nelle parole
essenziali, anche da chi ha frequentato uno dei “premiati diplomifici”
arianesi. I ragazzi erano in jeans e scarpe da ginnastica, come da noi.
Tutto l’insieme contribuiva ad annullare quel senso di disagio che
solitamente accompagna chi si trova fuori dal proprio ambiente. Mi sentivo
come se fossi in giro per una qualsiasi città italiana.
Inevitabile
allora si è presentato alla mia mente il pensiero di come si saranno
sentiti invece i nostri emigranti giunti da quelle parti tanto tempo fa.
Quando il termine globalizzazione non era stato nemmeno coniato. Quando il
paese d’origine e quello ospitante erano due mondi completamente diversi.
Quando non si conoscevano le parole più semplici della lingua del luogo
ospitante e anche approvvigionarsi delle cose elementari diveniva
un’impresa ardua. Mi hanno raccontato di un nostro concittadino che
acquistava e consumava alimenti per cani.
Sull’onda di
questi pensieri ho provato a immaginare idealmente il “percorso” di un
nostro emigrante. Prima di tutto ho provato a figurarmi come si potesse
maturare una decisione così coraggiosa, presa spesso da chi non era uscito
da Montecalvo nemmeno per il servizio militare.
Certamente
c’entravano il bisogno immediato e la prospettiva di migliorare
stabilmente la propria condizione economica, guadagnando di che acquistare
roba al sole. Ma la rabbia e le emozioni evocate dal ricordo dell’episodio
narrato in apertura mi hanno indotto a cercare di addentrarmi nell’animo
di chi si risolveva a partire; mi hanno fatto riflettere e portato a
concludere che queste motivazioni potevano essere concorrenti ma in
nessuna di esse risiedeva la ragione prima dell’ardua decisione di
partire, soprattutto in considerazione che questo avrebbe voluto dire
affrontare l’ignoto e misurarsi con popoli e culture diversi.
La vera
motivazione bisognava ricercarla altrove. Ci doveva essere qualcosa in
più, una spinta ulteriore che alla fine si rivelava decisiva. Poteva
essere il desiderio di riscattarsi dal ruolo di perdente, in cui la
miseria e le quotidiane sopraffazioni subite avevano ricacciato i più
deboli. Oppure la considerazione che ciò avrebbe significato, se non per
sé almeno per i propri figli, la via per l’uscita dall’ignoranza che li
faceva sentire così vulnerabili (anche le intime emozioni raccontate in
una lettera d’amore dovevano essere conosciute dal prete o dallo
scrivano). Oppure il desiderio di un lavoro come concreto fattore di
uguaglianza a premessa dell’elevazione personale propria e dei propri
figli. O forse la volontà di affrancare i propri figli da ogni necessità,
per farli uomini veramente liberi. Oppure il desiderio di portare avanti
le proprie basi di partenza, per allinearle a quelle dei più favoriti e
competere con loro finalmente ad armi pari.
Probabilmente
erano solo motivazioni latenti, non percepite nitidamente nemmeno dagli
interessati stessi ma, secondo me, presenti e riscontrabili poi in tanti
comportamenti di chi ce la faceva.
Magari segni
sfumati, che potevano sfuggire a quel fattorino evidentemente incapace di
comprendere nient’altro che gli aspetti comportamentali più ingenui e
folcloristici, pur presenti nel modo di fare e di essere dei nostri
oriundi montecalvesi.
Segni che però
non sfuggivano, invece, a chi era abituato a tirare le fila nella
quotidianità del nostro piccolo centro, tant’è che questi, nel vano
tentativo di perpetuare il proprio potere, non esitò a frapporre
all’opportunità di rivincita di qualcuno ostacoli burocratici di ogni
sorta fino ad arrivare a precludere il rilascio del passaporto specie
quando, ancor prima di partire, già erano evidenti i segni di
intolleranza.
Un segno
eloquente, ad esempio, poteva essere la padronanza della lingua straniera
appresa: si poteva così capire che essi erano stati felici e capaci di
apprendere da chi aveva loro permesso d’imparare. Se qualche volta l’uso
di parole straniere poteva sembrare ingenua ostentazione, a ben vedere
esso poteva dipendere dalla non conoscenza del corrispondente termine in
italiano. Non bisogna dimenticare che il lessico dei nostri emigranti era
sempre stato essenziale e impermeabile ai neologismi, di cui la
comunicazione quotidiana del loro piccolo mondo non avvertiva la
necessità.
Poi, ancora,
dall’ammirazione per l’efficienza della burocrazia dei luoghi ospitanti,
che avevano fatto loro conoscere il “diritto” senza contrabbandarlo per
favore, si poteva intuire il desiderio di sentirsi cittadino piuttosto che
suddito per quall’innato senso di giustizia e di uguaglianza presente in
ognuno di loro.
Dal continuo,
qualche volta ingenuo, raffronto sul livello di civiltà tra il popolo
conosciuto (da cui spesso avevano ricevuto l’imprinting della civiltà) e
quello d’origine (quest’ultimo spesso limitato nell’immaginario
dell’emigrante alla realtà montecalvese!) si capiva, tutto sommato, quanto
auspicassero una crescita in tal senso anche nella propria Terra,
nonostante tutto sempre nel loro cuore.
Dall’aver
incoraggiato e sostenuto ogni attitudine dei propri figli, quanto
stimassero diritto naturale di ognuno scegliere il proprio lavoro senza le
inappellabili condanne a seguire il mestiere e la condizione dei genitori.
Dal modo
ricercato nel vestire e dal modo di arredare e mantenere le proprie case,
quanto fossero sensibili al decoro.
Per dare un po’
di soddisfazione anche al fattorino si può anche dire della macchina di
grossa cilindrata: ma in essa si può scorgere il segno tangibile del
benessere a cui erano stati ammessi i nostri emigranti, a riprova che a
parità di condizioni fosse la virtù personale a fare la differenza.
Ma a che prezzo
era stato possibile tutto questo? A costo di quali sacrifici?
Ad un prezzo
salatissimo, reso sopportabile solamente dalla connaturata abitudine al
sacrificio e dal fatto di saperlo condizione per una crescita finalmente
possibile.
Così al valore
aggiunto finale si era pervenuti attraverso continue prove il cui solo
pensiero fa accapponare la pelle a noi generazioni successive che abbiamo
solo beneficiato di quei sacrifici.
Tutto cominciava
con l’attesa del contratto di lavoro - conditio sine qua non per
avere il permesso di soggiorno - che i compaesani già sul posto si
premuravano di far avere a chi voleva partire. Senza nessuna bassa
speculazione: solo per il piacere di poter aiutare un amico in difficoltà
e poter contare poi sulla sua compagnia. So per certo, invece, che solo
per depositare i sudati risparmi presso l’ufficio postale di Montecalvo
bisognava ingraziarsi, in tanti tangibili modi, solerti funzionari della
stessa genia del fattorino.
Ricevuto il
contratto si affrontava il lunghissimo viaggio, spesso pagato con soldi
presi in prestito, nei vecchi vagoni di seconda classe, su sedili di legno
che evocano il ricordo dell’altro legno in cui più d’uno è tornato
avvolto. Su, su attraverso luoghi sconosciuti, completamente diversi da
quelli in cui si era nati e cresciuti che ora, immaginati da lontano,
acquistavano un fascino tutto particolare.
Poche cose
semplici nelle valigie di cartone tenute strette dallo spago o da vecchie
cinture di cuoio: qualche vestito, un po’ di biancheria intima e per la
casa, qualche salame o altro alimento non deperibile, portato per
prolungare il più possibile il sapore di casa e per addolcire il pane
salato della solitudine.
Poi la sosta
subito oltre il confine per le visite mediche (simili, col dovuto rispetto
per quelle vittime, alle selezioni nei lager nazisti) per poter essere
autorizzati all’ingresso nel paese ospitante. Accertamenti sempre temuti,
oltre che per la paura di scoprire di essere affetti da qualche malattia,
anche per il pericolo del rimpatrio che avrebbe significato niente lavoro
e anche il problema di come restituire i soldi presi in prestito per
pagare le spese di viaggio.
Poi, sul posto
l’incombenza di dover fare la spesa, di cucinare, di lavare, di stirare,
di rassettare casa e di svolgere tutte le altre faccende domestiche - con
non pochi riflessi psicologici nel maschio montecalvese, per costume
tenuto sempre lontano dai servizi di casa - dopo una giornata di duro
lavoro, svolto sempre all’aperto con ogni tempo, pagato in misura minore
(all’80 %) in caso di pioggia quando, si sa, l’operaio rende meno!
E poi l’angoscia
per la duplice precarietà (sul posto di lavoro che si poteva perdere -
qualche volta anche per lo zelo di qualche compaesano kapò - e quella del
permesso di soggiorno che poteva non essere rinnovato) che se oggi tanto
spaventa, giustamente, i nostri giovani lavoratori allora rendeva
pressoché insopportabile la condizione di chi viveva e lavorava in una
terra la cui popolazione invocava ad ogni piè sospinto la cacciata degli
stranieri. Nazioni “civili” come la Svizzera
avevano tenuto finanche un referendum popolare promosso da James
Schwarzenbach
(alla fine degli anni sessanta) per decidere se tenere o meno gli
stranieri. Si possono facilmente intuire le motivazioni di chi voleva la
loro espulsione. Non meno umilianti erano quelle di chi li voleva tenere:
lasciamoli rimanere se non vogliamo fare quello che fanno loro!
A tutto questo i
nostri emigranti rispondevano col silenzio. Lo stesso silenzio che avevano
visto opporre dai loro padri alle velate minacce dei proprietari terrieri
montecalvesi, che se non pagati regolarmente non avrebbero rinnovato loro
il contratto d’affitto del terreno. Anche quando c’era stata la
“malannata” e non si era prodotto abbastanza nemmeno per sfamare i propri
figli.
Un silenzio
ugualmente operoso, però, perché all’umile (solo all’umile!) è stato
insegnato che quello che si riceve è benedetto solo quando è guadagnato
col sudore della fronte.
Poi, ancora, la
struggente nostalgia per il proprio piccolo mondo. La mestizia delle
serate passate in casa ascoltando la radiolina che riceveva programmi
dall’Italia. La tristezza di una domenica mattina lontani da tutti, senza
nemmeno il lavoro che tenesse la mente occupata. Quando si usciva dal
bistrot solo un attimo prima della chiusura per ritardare il più possibile
il rientro a casa per il pranzo, che si sapeva sarebbe stato momento di
tristezza poiché non condiviso con nessuno. Senza nemmeno il “fastidioso”
chiasso dei propri figli, abituati a ricevere carezze o amorevoli
rimbrotti solo in alcuni periodi dell’anno. Verso di loro l’unica cura
possibile a distanza era quella di mandare i soldi casa.
E per ognuno che
partiva c’era sempre qualcuno che restava: genitori, mogli e figli il cui
rimanere insieme spesso era solo una somma di solitudini. La partenza del
congiunto, oltre al dispiacere per il distacco, li lasciava in trepidante
attesa delle prime notizie che, quando arrivavano presto, giungevano dopo
circa un mese. Bisognava aspettare la lettera: “Cara Moglie, ti faccio
sapere che sto bene, così spero anche di voi. Il viaggio è andato bene
…”
All’allora
costosissimo telefono si ricorreva solo quando succedeva qualcosa di
grave: un incidente sul lavoro o una grave malattia. Mentre le morti erano
generalmente annunciate dai Carabinieri a cui era delegato questo ingrato
compito.
Ricordo di un
incidente occorso in Svizzera al padre di una mia carissima amica. Mi è
rimasta impressa la processione di gente verso la casa dei genitori di
lui. Ognuno chiedeva notizie, tutti si sforzavano di portare qualche
parola di conforto e di speranza.
Non ho conosciuto
nulla di più angosciante del silenzio innaturale che regnava in quella
casa, rotto solo dal pianto cheto della madre e dai sospiri del padre.
Tutto questo è
importante raccontarlo perché bisogna farlo conoscere alle giovani
generazioni, ricordarlo a quelle precedenti, rendere omaggio ai nostri
emigranti, di fronte ai quali, bisogna pur dirlo qualche volta: giù il
cappello!
E’ importante
farne memoria perché quello che è successo, la storia insegna, può
risuccedere. Soprattutto ora che, per buona sorte nostra, i ruoli si sono
invertiti e siamo noi a dare ospitalità a tanti stranieri.
Con questi
sgrammaticati accenni vorrei provocare qualche riflessione tra i miei
compaesani che si trovano ora a fare la parte degli svizzeri, dei
tedeschi, dei belgi e dei francesi di allora.
Mi piacerebbe che
si comprendesse cosa e chi c’è dietro ogni straniero che vive e lavora a
Montecalvo. Vorrei spingere a qualche considerazione chi non si è mai
soffermato a riflettere che l’opportunità data ad uno straniero
rappresenta una opportunità di arricchimento per noi.
La sorte ci ha
dato la possibilità di ringraziare per quanto abbiamo ricevuto e
restituire parte di quanto preso in prestito. Con i dovuti interessi.
Facendoci forti della nostra esperienza, che ci pone qualche passo avanti
rispetto a chi ci ha ospitati allora: conosciamo la solitudine degli
stranieri e possiamo fare qualcosa di concreto per alleviarla, fosse solo
una pacca sulle spalle o un semplice sorriso; sappiamo quanto poco
opportuni e offensivi siano i referendum per il loro allontanamento;
quanto sacrosanto sia dare la giusta mercede a chi lavora, che invece
quando viene lesinata offende la dignità di chi la riceve, togliendo
all’onesto lavoro la sua valenza egualitaria; sappiamo che non è la nostra
“superiorità razziale” a collocarci dalla parte del forte ma solamente un
complesso di circostanze storiche, mai determinate dagli umili; sappiamo -
per dirla in modo forse un po’ prosaico ma efficace - che si mangia anche
quando piove!
Questo piacevole
onere ricade su tutti i montecalvesi, su chi è rimasto non meno che su chi
è emigrato perché, come ho già avuto modo di dire, chi è rimasto a
Montecalvo ha potuto godere di un’offerta di lavoro maggiore, sostenuta
anche con le rimesse dall’estero.
Se poi questi
spunti sono serviti ad insinuare il tarlo ed a incrinare qualche
rispettabilità lucrata ingiustamente sulla pelle di qualcuno: ne sono
addirittura fiero!
Mi sia consentita
una chiosa: come appare piccolo quel fattorino! Per fortuna poco dopo
l’episodio narrato arrivò l’angelo vendicatore che regalò anche
all’umanità irpina l’umile e silenziosa obliteratrice: stessa intelligenza
di quel fattorino, stessa utilità, maggiore efficienza.
Signor Sindaco,
per cortesia, subito dopo “via della donna montecalvese” sarebbe possibile
aprire il “chiassetto dell’emigrante”? Grazie.