LA VIOLENZA di Lucio
Garofalo
Una
paurosa spirale di morte e distruzione ha
avvolto l’intera umanità, senza risparmiare più nessun popolo: è la
spirale “guerra-terrorismo” così come è stata convenzionalmente
definita.
Tuttavia,
tale apparente dicotomia non costituisce e non offre un’effettiva
alternativa tra due differenti opzioni, ma al
contrario si tratta di due facce della stessa medaglia. E’ un mostruoso
parto gemellare generato dal medesimo sistema che ha bisogno della
violenza organizzata in varie forme e fenomeni, per rigenerarsi,
ricostituirsi e perpetuarsi all’infinito.
Sempre in
questi giorni, a quattro anni di distanza dal 2001,
vengono rievocate le drammatiche giornate di Genova, segnate
dalle terribili violenze della repressione poliziesca, dall’assalto alla
scuola Diaz, dalle torture nel carcere di Bolzaneto,
dall’assassinio di Carlo Giuliani, eccetera.
Certo,
bisogna rammentare anche le violenze dei
black-block (e su tali vicende bisognerebbe far luce, dato che
ancora sussistono molte zone d’ombra, tanti misteri e lati oscuri),
violenze che sono anch’esse un parto degenere di un sistema sempre più
marcio, putrido ed incancrenito, capace di produrre in quantità
industriale soprattutto “merci” come la violenza, l’odio e la
distruzione, nella misura in cui ne ha
bisogno come l’aria che respiriamo, per poter giustificare la sua
esistenza.
Insomma,
tutte queste vicende sono strettamente legate da un denominatore comune:
la violenza.
Su tale
argomento varrebbe la pena di spendere qualche parola per avviare un
ragionamento storico, critico e politico il più possibile serio e
rigoroso. Io voglio provarci, partendo ovviamente dal mio punto di vista
e avvalendomi delle mie capacità analitiche, delle
mie conoscenze ed esperienze.
La
violenza, intesa come comportamento individuale, ha senza dubbio un
fondamento più profondo e complesso, insito nella struttura sociale. Ad
esempio, nella realtà delle società capitaliste, la violenza del
singolo, la ribellione giovanile apparentemente priva di cause,
l’alienazione, la follia, il vandalismo, oppure il teppismo negli stadi
di calcio (o ad una manifestazione), la criminalità comune, la
perversione di quei soggetti qualificati come “mostri”, sono sempre il
frutto (marcio) generato da una formazione sociale che ha bisogno di
produrre odio e violenza; sono la manifestazione di un
contesto storico-sociale che, per sua natura,
crea conflittualità, contribuendo alla depravazione dell’animo umano che
in tal modo viene ad essere intimamente condizionato dall’ambiente
esterno. Dunque la violenza non è una questione di malvagità o
perversione individuale, ma è un problema sociale,
ovvero costituisce la facciata esteriore e fenomenica dietro cui
si camuffa la violenza organizzata della società, è lo strato
superficiale sotto cui giace, si espande e si incancrenisce la
corruzione dell’ordine costituito.
In effetti
è alquanto difficile determinare e concepire la violenza come un
comportamento naturale, etologico,
immutabile, dell’essere umano, in quanto è la natura stessa
dell’ordinamento sociale, il vero principio che genera i cosiddetti
“mostri”, i criminali, i violenti in quanto singoli individui, che sono
spesso quei soggetti più labili e vulnerabili sotto il profilo psichico
ed emotivo.
La
visione che attribuisce alla “cattiveria umana” la causa dei mali e dei
problemi del mondo, è soltanto un’ingenua e volgare mistificazione
culturale.
Il tema
della violenza è talmente vasto, enorme, complesso, da rivestire
un’importanza centrale e prioritaria nell’ambito dello sviluppo storico
dell’intera umanità.
Sin dalle
sue origini, l’uomo ha dovuto immediatamente attrezzarsi per
fronteggiare la violenza esercitata dall’ambiente naturale nel quale era
inserito: il pericolo di aggressione da parte
delle belve feroci, le avversità atmosferiche, le catastrofi e le
sciagure naturali più terrificanti, quali terremoti, bradisismi,
vulcanismi, frane, incendi ecc., i suoi bisogni fisiologici da
soddisfare, ossia la fame, la sete, la necessità di procreare e via
discorrendo.
In
seguito, con il trascorrere dei secoli e dei millenni, l’uomo è riuscito
a compiere un’immane progresso tecnologico e
materiale che lo ha affrancato dal suo primitivo asservimento alla
natura, rovesciando, in un certo senso, il rapporto originario tra
l’uomo e l’ambiente. Oggi, infatti, è soprattutto l’uomo che arreca
violenza alla natura, ma la relazione rischia di invertirsi nuovamente.
Durante
la sua lunga evoluzione culturale e materiale, l’umanità
ha creato e conosciuto svariate esperienze di
violenza: le guerre, la tirannia, le ingiustizie sociali, lo
sfruttamento, la fatica quotidiana per la sopravvivenza, il carcere, la
repressione, le rivoluzioni, fino alle forme più rozze ed elementari
come il teppismo, la prepotenza, la sopraffazione del singolo su un
altro singolo. Tuttavia, tali fenomeni così disparati, pur nella loro
molteplicità e nelle loro apparenti
contraddizioni, si possono riassumere e ricondurre ad un’unica matrice
storico-causale, vale a dire la natura intrinsecamente violenta,
ingiusta e disumana della struttura sociale e materiale su cui si erge
l’organizzazione della vita e dei rapporti umani nel loro incessante
divenire storico.
Il
problema originario e fondamentale della violenza nella storia umana
(che è scisso dal tema della violenza nel mondo preistorico e
primordiale di cui sopra) è costituito dall’ingiustizia e dalla violenza
insite nel cuore delle società classiste, le quali si basano sulla
divisione sociale dei ruoli lavorativi e sullo sfruttamento materiale di
una classe sul resto della società. Solo quando lo sviluppo delle
capacità economico-produttive e tecnologiche della società, avrà
raggiunto un livello tale da permettere il superamento e l’eliminazione
della ragion d’essere che nel passato ha giustificato e determinato lo
sfruttamento del lavoro servile e del lavoro salariato, l’umanità potrà
compiere il grande balzo rivoluzionario che
consisterà in un processo di liberazione dalla violenza dell’ingiustizia
e dello sfruttamento di classe. Ebbene, è un dato di fatto che tali
condizioni, connesse al progresso
tecnico-scientifico ed alla produzione delle ricchezze sociali, siano
già presenti nella realtà oggettiva, ma sono mistificate e negate dal
persistere di un quadro (ormai obsoleto) di rapporti di supremazia e
sottomissione tra le classi sociali.
In tal
senso, il potere borghese non è mutato, i suoi rapporti all’interno e
all’esterno sono sempre improntati alla violenza. Esso continua a
reggersi sulla violenza, in modo particolare sulla forza bruta
(legalizzata) di strutture e di istituzioni
repressive quali, ad esempio, il carcere, la polizia, l’esercito.
Nel contempo, il potere borghese ha imparato
ad impiegare altre forme di controllo sociale, più morbide e
sofisticate, addirittura più efficaci, come la televisione e i
mass-media.
Oggi,
infatti, molti Stati borghesi, soprattutto quelli più avanzati sul
versante tecnologico, vengono gestiti e
controllati non solo e non tanto attraverso i sistemi tradizionali della
violenza legalizzata ed organizzata, cioè gli eserciti e le polizie,
quanto soprattutto ricorrendo alla forza persuasiva ed alienante della
televisione e dei mezzi di comunicazione di massa.
Naturalmente, il discorso sulla violenza non è per nulla concluso, né
può esaurirsi in una breve riflessione come questa, giacché si tratta di
un tema talmente ampio, controverso e difficile, da meritare molto più
spazio, molto più tempo, molto più studio e
molto più ingegno di quanto possa fare il sottoscritto.
Per
quanto mi riguarda, io ho cercato semplicemente di suscitare e lanciare
un input.
Lucio
Garofalo
|