LE PACCHIANE DI ARTURO DE CILLIS
“Songo arrivati puro li munticalvisi”. Bastava che il pullman
dei pellegrini provenienti da Montecalvo facesse timido
capolino sul piazzale contiguo al santuario di San Gerardo a
Materdomini perché, dai vocianti e colorati capannelli degli
astanti, si levasse – percepibile distintamente anche da chi non
ne udisse il suono ma fosse in grado comunque di interpretare il
movimento delle labbra – quel commento stentoreo e quasi
divertito: “songo arrivati puro li munticalvisi”!
Per anni mi sono chiesto – nell’ affardellamento delle
migliaia di interrogativi inutili ed assurdi con i quali
ciascuno di noi affolla, quasi ingolfandoli, la mente ed i
ricordi – da dove i solerti e determinati individuatori della
genia montecalvese - in versione pellegrinaggio
tardo-settembrino - riuscissero a ricavare le loro granitiche
certezze circa la provenienza di quell’aggregazione eterogenea
di rara umanità. E solo in tempi recenti io, che a San Gerardo
ci andavo da bambino e che oggi mi avvicino (sia pure
“trotterellando”, con spocchiosa presunzione di gioventù ben
radicata nella mente e nel corpo) ai cinquant’anni, sono
finalmente arrivato al punto di svelare l’arcano.
La soluzione a lungo ricercata è, in realtà, molto banale.
Quando, negli anni addietro, il popolo di Montecalvo – e con
“popolo” intendo l’interazione di tutte le componenti sociali,
sessuali ed anagrafiche dell’antica comunità – valicava i
confini del proprio territorio ed approdava alle mete
predestinate, fossero esse vicine o lontane - Montevergine come
Lourdes - , non poteva non essere immediatamente individuato, in
ragione di un preciso particolare, assolutamente irrilevante
nella cerchia delle mura domestiche ma visibile, visibilissimo –
addirittura, scioccante – all’esterno di quelle mura.
Il riferimento è all’abbigliamento che ha reso peculiari
ed uniche le donne di Montecalvo per tanti decenni e che ancora
oggi – sia pure, tristemente, circoscritto ad un numero sempre
più sparuto di “esemplari” – funge quasi da suggello cromatico
alla tempra delle nonne nostrane che, per tutta una vita, non
hanno indossato altro che quegli abiti.
Non descriverò nel dettaglio la fantasiosa armonia del
vestito femminile montecalvese, inopportunamente definito, anche
in paese, “lu costume”, quasi si trattasse di indumenti che si
indossano per uno scopo od un’occasione particolare e non
facessero invece parte del “mostrarsi” quotidiano di intere
generazioni muliebri. Non lo descriverò perché già altri lo
hanno fatto in modo egregio e, soprattutto, perché nessuna
descrizione, per quanto accurata, potrebbe rendere adeguatamente
l’idea di quello che può “raccontare” un ordito multicolore che
non è come un comune vestito che “sta addosso” a chi lo usa, ma
costituisce un tutt’uno con chi lo indossa, rende peculiare il
contesto in cui si inserisce. Soprattutto, fa, di una donna come
tante, un qualcosa di diverso e di peculiare: ne fa una “montecalvese”,
altrimenti definita “pacchiana” – sia pure con intenti non
diffamanti e proprio in ragione dell’antico abbigliamento –,
nella sua splendida, altera, inconfondibile, coloratissima
unicità. Le imprime, insomma, un sigillo di riconoscibilità che,
nel tempo e nello spazio, ha finito per attribuire alle nostre
donne il ruolo di “bandiera”, festosa e multicolore, di tutta
una comunità.
Erano “pacchiane montecalvesi” le donne che si
presentavano, nei primi decenni del secolo scorso, davanti agli
arcigni controllori di Ellis Island, invocando il permesso di
ingresso negli Stati Uniti per potersi ricongiungere ai loro
cari, già sbarcati nello stesso porto qualche anno prima. Quanto
scherno – stupido e ingeneroso scherno – avranno provocato
quelle vesti variopinte, quei “maccaturi” svolazzanti, quelle
“cammisole” con i pizzi ricamati?
“Pacchiane” erano anche le donne costrette dalla crudeltà
della natura a scavare con le mani per recuperare i corpi dei
loro parenti seppelliti sotto le macerie del terremoto del 1930.
Anche a salutare il principe Umberto, in visita a
Montecalvo prima di diventare effimero sovrano di un effimero
regno, accorsero le “pacchiane” , le quali, per l’occasione,
avevano impreziosito il già ricco vestito con gli ori riservati
alle occasioni solenni.
E sono state le “pacchiane” a condizionare l’alternanza
degli schieramenti politici alla guida del comune di Montecalvo,
interpretando nel corso degli anni l’appartenenza alla “Croce”
(democrazia cristiana) od alla “Spiga” (partito comunista) con
sanguigna determinazione.
Da ultimo, “pacchiane montecalvesi” sono state le nonne di
tutti quelli della mia generazione, laddove le nostre madri
hanno dismesso l’abbigliamento tradizionale degli avi, optando
per i più comodi e funzionali vestiti “moderni”. Sicché le
“pacchiane” di Montecalvo si avviano verso l’ineluttabile,
dolorosa estinzione.
Pochi, pochissimi anni ancora e, per vedere quelle vesti
variopinte, quei “maccaturi” svolazzanti e quelle “cammisole”
con i pizzi ricamati saremo costretti a chiedere un appuntamento
alle ragazzine del gruppo folk.
Arturo De Cillis
(pubblicato su “Lo Brigante”
n. 15-giugno 2005)
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