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LEZIONI APPRESE

 

Nel suo libro “Partenopeo in esilio”, Riccardo Pazzaglia narra un episodio di quando lui era bambino: un giorno si presentò nella sua classe una giovane donna, molto ben vestita, che, per conto della compagnia di assicurazioni per cui lavorava, parlò ai ragazzi dell’utilità di avere una polizza assicurativa sulla vita. Perché i bambini meglio comprendessero l’importanza di quanto proponeva loro, parlò diffusamente delle disgrazie che possono accadere ad un individuo: dall’incidente di macchina, alle malattie, alla tegola che gli cade in testa, al lampo che lo fulmina per strada. La cosa impressionò molto i bambini che, tutti insieme, proruppero in pianto. Per non dire, poi, delle reazioni dei loro familiari: sentito il racconto dei bambini spaventati, tutti si affrettarono a fare gli scongiuri, indirizzando alla signorina i peggiori epiteti di cui erano capaci. Il giorno dopo, tutti i bambini tornarono a scuola con l’abitino della Madonna appeso al collo, allo scopo di allontanare tutte le disgrazie paventate ai loro danni.

Questa breve digressione mi serve ad introdurre l’argomento che vorrei trattare, togliendo ai buontemponi l’originalità delle battute di spirito e sperando di non indurre nessuno a correre con la mano a quella parti del corpo ritenute punti cruciali per le pratiche antijettatorie. 

Se si apre il libro di Gian Bosco Cavalletti “Dalle pietre alla storia”, si nota che la storia di Montecalvo è possibile narrarla passando di terremoto in terremoto. Tanti dei montecalvesi di oggi ne ricordano almeno due, se non tre: quello del 1962, quello del 1980 e, i più anziani, anche quello del 1930. Quindi si può ben dire che la nostra terra è a forte rischio sismico. Io personalmente non ricordo quello del 1962 (avevo solo 10 mesi), mentre ho ben presente quello del 1980. Per fortuna Montecalvo non ebbe crolli di edifici (quelli li fecero notte tempo gli amministratori affinché si eliminassero alcuni edifici pericolanti - o presunti tali). In ogni caso, la paura della gente fu tanta e tutto il paese passò la notte, e molte di quelle successive, per strada, in macchina o nelle baracche ancora presenti dal 1962. Successivamente giunsero in paese delle roulotte provenienti da tutt’Italia e convogliate anche da noi da chi coordinava i soccorsi, nonostante nessuno avesse avuto la casa distrutta.

Passata la fase acuta, si cominciarono le prime riattazioni delle case danneggiate e, via via, è stata ricostruita gran parte del paese, che è ora quello che conosciamo.

Circa sei anni dopo il terremoto ebbi la fortuna di partecipare, a Firenze, in rappresentanza dell’ente presso cui lavoravo, ad un ciclo di lezioni, tenute da personale altamente qualificato, finalizzato alla formazione di “operatori di protezione civile”. Operatoti, cioè, da addestrare per creare sul territorio pool di raccordo tra le varie componenti chiamate ad operare in caso di pubblica calamità. C’erano gli ingegneri del genio civile, i Comandanti dei Reparti delle Forze Armate, gli Ufficiali della sanità militare e quelli del Genio, gli ingegneri della protezione civile, quelli dei vigili del fuoco, gli operatori della Croce Rossa, i rappresentanti degli enti locali e le associazioni di volontariato.

La prima cosa che gli istruttori si preoccuparono di inculcare ai partecipanti fu il concetto che per ben utilizzare gli aiuti non deve mancare sul posto qualcuno capace di valutare freddamente la reale entità dei danni e indicare il tipo di aiuto necessario: che tipo di soccorso sanitario, quanta mano d’opera, quali macchinari, quali apparecchiature, eccetera. Era questa una questione concreta: mi ricordo che da noi, in Irpinia, successe anche che gli aiuti si concentrassero nei grossi centri e i piccoli paesi, come ad esempio Teora, avessero i soccorsi molto dopo. In molti paesi mancarono le bare per seppellire i morti e si registrarono tante altre inefficienze che riempirono le cronache dei giornali dell’epoca.

Questo corso di formazione nacque per volontà delle istituzioni toscane, pubbliche e private, che, in occasione del terremoto, erano state in Irpinia. Evidentemente, mentre soccorrevano le popolazioni in difficoltà, con l’encomiabile generosità di cui sono capaci le genti toscane, prendevano nota delle problematiche che si palesavano e ne facevano tesoro.  

Il corso di formazione era solo un aspetto dell’imponente organizzazione già messa in atto per poter fronteggiare un evento calamitoso. Infatti, nel corso degli incontri, ci fecero anche visitare un centro raccolta degli aiuti, sorto dalle parti di Barberino del Mugello, paese sull’appennino Toscano, scelto proprio per la sua posizione altimetrica, poiché la calamità per loro ritenuta più probabile era un’esondazione del fiume Arno.

In grandissimi capannoni era stivato di tutto: tende, prefabbricati facilmente montabili in pochi minuti, medicinali, alimenti, coperte, stufe, vestiario, ospedali da campo e ogni altra cosa che potesse servire per un intervento di primo soccorso alle popolazioni colpite. In un capannone apposito, inoltre, erano finanche stivate, in gran numero, le bare.

Il corso si concluse con una esercitazione: i partecipanti furono divisi in gruppi di lavoro (ovviamente ciascuno comprendente almeno un rappresentante per ognuna delle categorie su menzionate). Ad ogni gruppo fu assegnato il compito di ipotizzare un evento calamitoso in varie località toscane, di predisporre una strategia d’azione coordinata ed aderente e di simulare un intervento a favore delle persone rimaste senza casa. Mi ricordo che si poteva far riferimento a delle tabelle predisposte da esperti, che a seconda dell’intensità dell’evento simulato, offrivano una stima approssimativa dei danni possibili, fino a quantificare, per grandi linee l’entità numerica delle persone interessate. L’esercitazione fu utilissima perché fece effettivamente capire quanto fosse importante imparare a coordinare le forze disponibili che, data i diversi compiti istituzionali, avevano modalità molto diverse di operare sul campo.

Seguii sia il corso sia l’esercitazione con vivo interesse e partecipazione, perché capii che si trattava di un’ottima idea, concreta ed utilissima. Innanzi tutto insegnava a conoscere il proprio territorio, a capirne i limiti e anche a rispettarlo per contribuire alla prevenzione; riduceva quel senso di fatalismo con cui si guarda agli eventi naturali (certo, senza sciocche minimizzazioni) e infondeva in tutti la consapevolezza che pur non essendo prevedibili tutte le calamità naturali, i loro effetti, invece, erano più che prevedibili e potevano essere contenuti se affrontati con la dovuta perizia e la giusta tempestività. Ogni partecipante uscì convinto che l’approccio sistematico ad un problema conferisce la lucidità necessaria per ben operare in situazioni estreme.

A questo punto sorge spontanea la domanda: abbiamo noi saputo trarre qualche insegnamento da un evento che ci ha toccati così da vicino? Se dovessimo noi dar soccorso a qualcuno, di quale esperienza saremmo portatori?

Certo non si può pretendere che le istituzioni montecalvesi possano produrre in proprio l’attività descritta: sarebbe un’impresa titanica per un piccolo centro qual è il nostro paese. Tutt’al più sarebbe auspicabile che se ne facessero promotrici. Nel frattempo, se non il tanto, si potrebbe ricercare almeno il poco, poiché rimane il fatto che, se ce ne fosse necessità (Dio non voglia), i montecalvesi non saprebbero nemmeno dove radunarsi.

Occorrerebbe, quindi, lavorare alla predisposizione di un piano di intervento per i casi di estrema necessità. Perseguire, in sostanza, un minimo di organizzazione autonoma finalizzandola almeno al soccorso di primo tempo.

Non è detto, però, che un intervento in tal senso debba essere necessariamente pilotato dalle istituzioni politiche locali. Si potrebbe, per esempio, raccogliendo l’invito che il Prof. Sorrentino ha più volte fatto sul forum di irpino.it, dar vita ad una associazione della cosiddetta società civile che, arruolando tutte le persone disponibili, mettesse tra le proprie finalità anche quella curare questo settore, non meno importante di tante altre opere già svolte a favore dei montecalvesi.

Secondo me ci dovrebbe essere una preventiva fase di studio - per le valutazioni del rischio, delle risorse necessarie, di quelle disponibili e per le predisposizioni tecniche e organizzative - e, successivamente, il coinvolgimento diretto di tutta la popolazione per stimolarne la partecipazione attiva, previa presentazione dell’intera predisposizione. L’ideale sarebbe di riuscire a dire ad ogni cittadino cosa fare, dove andare, cosa comunicare e a chi, e, se in grado, come aiutare gli altri.

Insomma una fase concettuale ed organizzativa ed una fase condotta.

Nella prima provvedere a:

Ø      censire i volontari che, però, smettano di sentirsi tali appena accettano liberamente di entrare a far parte dell’organizzazione;

Ø      stimare il rischio: i tecnici edili potrebbero pervenire ad una valutazione delle probabilità di crolli. Già una differenziazione, ad esempio, tra le case in muratura e quelle in cemento armato potrebbe fornire una proiezione più o meno attendibile;

Ø      prevedere ed organizzare una sala operativa per la raccolta, l’elaborazione e l’invio di tutti i dati d’interesse;

Ø      creare magazzini di stoccaggio di materiali e di generi di prima necessità;

Ø      suddividere il paese in aree omogenee da rendere autonome nella immediata gestione del post evento. Già, ad esempio, in grado di fare subito il punto di situazione riferito a tutti i propri componenti (ci siamo tutti?, come stiamo?, che ci serve? come possiamo renderci utili?);

Ø      individuare punti sicuri di raccolta della popolazione di ciascuna area;

Ø      predisporre un posto di raccolta feriti comune facilmente raggiungibile;

Ø      definire organicamente delle squadre sanitarie con a capo un medico (per fortuna a Montecalvo non mancano) e comprendenti, ove possibile, anche altri operatori sanitari;

Ø      configurare nuclei di vigilanza contro lo sciacallaggio;

Nella seconda fase provvedere a:

Ø      informare la popolazione;

Ø      effettuare una esercitazione, per lo meno limitata agli operatori, e ripeterla nel tempo per aggiornare il piano e rinfrescare le competenze;

Ø      inserire tutta l’organizzazione nel percorso formativo scolastico.

Sono solo idee in libertà, messe insieme per trascorrere un piovoso pomeriggio di dicembre. Non ho la pretesa di insegnare nulla a nessuno né di volermi sostituire ad alcuno. Consideratele un contributo di pensiero, uno stimolo per cercare di smuovere qualcosa, per ribadire che per affrontare certe situazioni non ci vogliono gli scongiuri né i santini. Bisogna prepararsi con razionalità, sperando e pregando che sia tutto lavoro perso.

Un caro saluto a tutti, Mario CORCETTO (mariocorcetto@tiscali.it)

Firenze, 9 dicembre 2007

 

 

 

 


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