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La Malvizza
di Alfonso Caccese
Pubblicato il 24/01/2005
La
ricerca delle proprie radici è un’esigenza che prima o poi,
qualsiasi individuo si sente in dovere di tradurre in
informazioni reali. Talvolta, addirittura, questa operazione si
arricchisce via via di contenuti di sicuro valore letterario,
scientifico, poetico. Per conseguire traguardi di tali
dimensioni, è opportuno esprimere una gamma di funzioni e di
sensibilità di fondo talmente ampia da poter essere parafrasata
senza limitazioni di sorta. Ne possono nascere trame espressive
di diversa tipologia analitica: con inclinazione alla creatività
artistica o alla riscoperta dell’ uomo attraverso vere e proprie
analisi del contesto sociale. Si tratta di lavori rari, però,
quando se ne scopre qualcuno, lo si legge con un piacere nuovo,
se non altro per appropriarsi dei piccoli tesori che in esso si
celano, magari dietro un sottile velo di pudore. A ricordare e a
tramandare oralmente tutto quello che è possibile ed umanamente
tramandabile è il carattere forte e duro degli abitanti di
questa contrada attenti custodi della propria storia e delle
proprie tradizioni. Uomini e donne forgiate dalla durezza della
vita ma strettamente legati alla continua evoluzione dei tempi
moderni perenni testimoni di una storia non scritta ma realmente
passata in questa terra che ancora oggi mantiene tutto il suo
fascino misterioso e affascinante. La mesta sobrietà di vecchi
contadini che da antichi massari, si sono , trasformati in
conduttori di aziende agricole moderne dove del passato resta
solo la struttura organizzativa di un lavoro svolto con una
cadenza di tempi connesso ai ritmi biologici della natura.
In
una masseria , diventata oggi una moderna villetta di campagna,
incontriamo una famiglia organizzata secondo i vecchi canoni ma
con opportune differenze. Accanto allo screpitio di legna che
irradia la sua luce e il suo calore da una “fucagna” da antichi
ricordi, il buon vecchio Antonio, questo è il suo nome ci
ricorda che: “ Non è più come una volta, oggi pure nella nostra
contrada tutto è cambiato, ci sono le macchine moderne che ci
aiutano nel nostro lavoro, siamo diventate aziende agricole e
non siamo più al tempo dei massari”. Nella sua intensa vita ha
visto il mutare delle cose e coi propri occhi ha assistito alla
trasformazione radicale del mondo contadino dagli inizi degli
anni sessanta in avanti. Testimonianza di un epoca in cui
l’analfabetismo era imperante e la popolazione, traeva
sostentamento dalla coltivazione della terra e dall’allevamento
del bestiame. La suddivisione della società in classi era una
tremenda realtà e i lavoratori della terra rappresentavano la
classe più umile. Nelle masserie luogo più importante era l’aia,
da anni scomparsa per colpa della moderna organizzazione del
lavoro. In questa parte centrale si procedeva alla trebbiatura
dei cereali si lavorava in mezzo al baccano e alla confusione,
secondo una tradizione consolidata. Una moltitudine di uomini,
donne e ragazzi lavoravano alacremente sull’aia, per giorni o
settimane, ammazzandosi di fatica. Si respirava polvere e si
sudava tanto con la canicola di luglio e agosto, per mettere da
parte il raccolto dei cereali per l’inverno e anche la paglia
per le bestie. A partire dagli anni Settanta, le nuove macchine
tecnologicamente avanzate ( le mietitrebbiatrici ) capaci di
operare anche sui declivi
delle colline, hanno risolto ogni problema con la trebbiatura
effettuata direttamente nei campi coltivati e la consegna, ai
relativi proprietari, dei sacchi pieni di grano a domicilio. In
questo modo sono scomparse delle affascinanti figure
ottocentesche di lavoratori rurali, oramai confinati nei ricordi
di un tempo che fu. Anche il paesaggio rurale in questi decenni
è mutato, sia per l’introduzione di nuove tipologie di coltura
che per l’uso diffuso delle macchine agricole che hanno
sostituito il lavoro umano.