Montecalvo
Irpino 1943 - 45 : Ricordi di un ragazzo di allora.
Su ogni cima delle colline che
circondano la valle c’è un paese, meno che sull’altura dominante verso
nord, che è una montagna vera e propria di circa mille metri. Era
dall’infanzia che desideravo andare lassù per scoprire i monti e i
paesaggi che essa nasconde a chi guardi l’orizzonte dal mio paese, che è
posto a un’altezza più modesta. Quando finalmente scalai il monte, se
questo è il verbo più adatto, visto che ero arrivato comodamente seduto
in macchina a un quarto d’ora di cammino dalla cima, non fu la visione
dei lontani, azzurrini monti dell’Abruzzo a colpirmi di più, diafani e
indistinti nella foschia, ma quella del mio paese, che mi appariva non
più aggrappato al suo cocuzzolo come un presepe, ma schiacciato su un
piano a circa trecento metri più in basso. Nell’aria tersa riconobbi
tutte le sue strade e le case, le macchie degli orti e le piazze. Avevo
ripensato lassù alla mia infanzia, mentre percorrevo con lo sguardo
quella mappa inaspettata; perciò vedendo lampeggiare nella mente un
volto che mi era stato caro, mi venne l’idea di cercare tra le tante
altre case ormai a me indifferenti una in particolare. Dopo parecchi
errori d’orientamento riuscii a rintracciarla ai piedi della pineta. Lì
aveva abitato la mia maestra delle elementari. La vista di quella
abitazione, una delle tante case veramente piccole che sarebbero dovute
servire da rifugio provvisorio per i senzatetto di vari terremoti, ma
che sempre sono rimaste occupate tra un sisma e l’altro sino ad oggi, e
il nome che subito vi appiccicai mi fecero tornare in mente un episodio
che credevo fosse svanito per sempre. Dovevo subito trovare un angolo
tranquillo, fregarmene di impegni e appuntamenti e forse avrei potuto
recuperare con qualche ordine la storia della maestra e di altre persone
che insieme a lei aspettavano di rivivere nel mio ricordo. Scesi in
fretta al paese che sorge a mezza costa di quella stessa montagna, e lì,
seduto al tavolino di un bar, cominciai a buttar giù in gran furia, con
una biro che a un certo punto smise di scrivere, quanti più nomi, date e
circostanze potevo, a mano a mano che riemergevano dal buio della
dimenticanza.
Avevo cinque anni appena nell’anno che
devo necessariamente considerare come quello iniziale di questa storia;
per cui non so spiegare la mia presenza in una classe di seconda
elementare quando partì la giostra dei fatti che sto per raccontare. Era
la seconda oppure la prima elementare? Ma si coniugano già i verbi in
seconda o addirittura in prima? Perché la vicenda d’inizio ruota attorno
alla coniugazione di un verbo. Sono domande alle quali per ora non so
rispondere. Comunque, quella mattina d’autunno c’era un maestro nuovo ad
aspettarci nella nostra classe. Passeggiava a lunghi passi tra i banchi.
Il tono della voce era quella di un orco; e anche il suo aspetto era
quello di un orco. Una bella differenza dalla nostra dolcissima maestra
torinese.
Con l’arrivo del supplente – non
poteva essere che un supplente, speravamo – era entrato in classe
qualcosa della guerra. Ce ne stavamo immobili nei banchi, con gli occhi
bassi sui quaderni. E lui, anziché mettersi a leggere il giornale, come
sapevamo che facevano i supplenti, si mise in testa di interrogarci. Si
appoggiò col sedere alla cattedra e chiamandoci davanti a sé uno alla
volta cominciò a chiederci il passato remoto del verbo “perdere”. Fu
un’operazione lenta e sistematica - come un rastrellamento, mi viene da
dire adesso.
Aveva già punito quasi tutti i
compagni e le compagne, non ricordo se con cinque o dieci colpi di
righello nel palmo della mano, sia che avessero risposto “perdei” che
“persi” o “perdetti”, e invitato ciascuno di quelli già passati per le
armi a mettersi in fila tra i banchi dietro ai compagni che avevano
risposto nello stesso modo, quando si sedette.
Pensavamo che si fosse stancato di
picchiarci, e noi che restavamo per ultimi cominciavamo a sperare di
averla scampata, ma ecco che quel disgraziato si alzò di nuovo con il
righello pronto in mano…
Riprese con Lanza che s’inventò
per la gran fifa “io perdui”. Un colpo di genio, perché al supplente
scappò da ridere e Lanza non fu punito. E ridemmo vigliaccamente anche
noi insieme all’orco. Sistemato poi Lanza sulla cattedra, venne verso
noi ultimi rimasti da interrogare: io, un altro maschio e una bambina.
“Su, belli, dividetevi voi stessi
tra le tre file,” ci disse. “A meno che non vogliate stare con Lanza
sulla cattedra…”
“Signor maestro,” disse allora con
un filo di voce Parzanese, l’altro maschio del terzetto, “tutti e tre.”
“Che cosa tutt’e tre?”
“Si può dire in tutti e tre i
modi,” ripeté con tono meno sicuro di prima Parzanese.
Allora il supplente, prima gli
chiese di ripetere forte, che quei somari dei suoi compagni sentissero
bene, poi si mise a urlare: “Ecco, ecco, somari che non siete altro. Lo
vedete che soltanto un figlio delle zolle, sudate zolle, c’è arrivato?
Voi cocchi di mamma e figli di borghesi rammolliti potevate mai
riuscirci?” E riprese a urlare male parole, ma stavolta prendendosela
con certe “quinte colonne” e certi schifosi traditori della patria, che
a noi, proprio, non potevano essere più sconosciuti.
Mise dieci sul registro a
Parzanese, dopo averlo promosso capoclasse al posto di Mazzoccoli caduto
sul campo con il suo “perdetti”, e uscì nel corridoio a fumare. Ma
prima che uscisse, questo lo ricordo
benissimo, assestò anche a me e alla compagna i colpi di righello,
perché ci disse che dovevamo condividere la sorte degli altri compagni,
visto che era impossibile sapere che tipo di risposta gli avremmo
scodellata senza conoscere prima quella di Parzanese.
Quando uscimmo dalla scuola,
invece di precipitarci fuori sgomitando come al solito con le altre
classi, aspettammo il nostro turno e poi ci avviammo mogi mogi verso la
piazza, e lì ci lasciammo cadere sui gradini del monumento ai caduti.
Parecchi di noi si soffiavano le mani martoriate, altri le tenevano
nascoste in tasca. Poca voglia di parlare avevamo perché, come succede
quasi sempre in casi simili, ci sentivamo in colpa noi per l’
umiliazione ingiustamente subìta.
Dopo qualche sfogo a mezza voce,
il capoclasse spodestato mi chiese se volevo andare dalla maestra e
riferirle il fatto. “Subito, però,” consigliò un altro.
La mia famiglia abitava proprio
nella piazza del monumento ai caduti, e già da qualche minuto avevo
notato che l’automobile di mio padre era parcheggiata davanti casa
nostra, con tutti gli sportelli aperti e, intorno, i miei familiari
indaffarati a caricarla con varie cose. La macchina – mi pare che fosse
un’Aurelia, con quella sua caratteristica gobba e i due lunotti
posteriori accostati – era l’unica vettura pubblica del paese. Serviva,
oltre che per il collegamento con la stazione ferroviaria, giù nella
valle, per il ritiro della posta e persino per il ricovero urgente degli
ammalati negli ospedali di Benevento o di Napoli. E meno che per una
gita a Pasquetta o una visita a un santuario, mai nessuno della famiglia
ci saliva. Ora, invece, la vedevo caricare da mia madre e da mia sorella
con i più svariati oggetti di casa, mentre mio padre legava sul
portabagagli materassi e grossi involti di panni.
I miei erano così presi da ciò che
stavano facendo che non si accorsero che io entravo, depositavo la
cartella nell’angolo più vicino alla porta d’ingresso, mi rifornivo di
una fetta enorme di pane e schizzavo fuori con destinazione casa della
maestra. Avevo capito che il pranzo, quel giorno – per quanto la cosa
potesse sembrare incredibile – sarebbe stato con ogni probabilità
saltato e che se volevo portare a compimento la mia missione sarei
dovuto andare dalla maestra senza chiedere permessi né dare spiegazioni.
Ma mia madre mi vide proprio mentre doppiavo ventre a terra l’angolo del
monumento e mi chiamò. Dovevo correre dalla maestra per una cosa urgente
di scuola, urlai. Mi guardò in quel suo modo infallibile per farmi
ubbidire e tornai indietro. Stranamente non mi sgridò. Anzi, mi chiese
di portare pazienza se non pranzavamo all’ora solita, ma per una ragione
troppo lunga da spiegare dovevamo sfollare subito in campagna da un
nostro amico contadino (era la prima volta che sentivo quel termine di
“sfollare”). Comunque, se proprio dovevo andare dalla maestra, tornassi
subito.
Trovai la porta della casetta
aperta ed entrai senza bussare, come del resto si faceva normalmente
allora in tutte le case. La cucina era anche ingresso e dalla cucina si
entrava nell’unica stanza dell’abitazione, che era soggiorno, camera da
letto e tutto. A parte, uno sgabuzzino come bagno. Entrai nella stanza
ma mi arrestai sulla soglia perché vidi che la maestra stava parlando
con un uomo. Erano uno di fronte all’altra, seduti ai due lati di un
tavolino sul quale sapevo che la maestra correggeva i nostri compiti.
Lei mi vide e mi sorrise; anche lui si voltò sorridendo. Era il
guardiano del convento dei frati minori, ma vestito nella divisa di
ufficiale dell’esercito – più esattamente, di ufficiale cappellano, come
avrei imparato in seguito. Capii che avrei dovuto raccontare in fretta
la nostra storia e andarmene. Lei mi fece segno di sedere sul letto e mi
offrì dei riquadri di una cioccolata già aperta sul tavolo,
avvolgendomeli nella carta stagnola. Io però rimanevo in piedi con le
braccia stese lungo i fianchi. Avevo sentito che il frate le stava
dicendo che sarebbe partito anche lui per accompagnarla a Torino. Perciò
era venuto il supplente, mi balenò nel cervello, e chissà per quanti
anni dovevamo stare sotto quello lì! Loro aspettavano che parlassi, ma
non ci riuscivo. La maestra mi fissava preoccupata e anche il frate
sembrava preoccupato. Lei mi aprì il palmo della mano per farmi prendere
la cioccolata e scoprì il gonfiore delle battiture. Scambiò allora con
il frate uno sguardo che mi sembrò di compassione. Quello sguardo mi
fece sciogliere in lacrime. Avevo misurato nei loro occhi l’immensità
della sventura capitata a me e ai miei compagni, poveri innocenti
abbandonati dalla più amorevole delle maestre alla mercé di un violento
picchiatore.
Cercarono di calmarmi, ma ero
proprio inconsolabile. Allora lei mi abbracciò. Dopo che mi ebbe tenuto
stretto a sé per un po’ mi calmai – ricordo come fosse ora il suo
profumo e la morbidezza del suo abbraccio – e finalmente riuscii a
raccontare quello che ci era successo.
Quando ritornai in piazza c’erano
una motocicletta – un sidecar, veramente – e due soldati tedeschi fermi
accanto al monumento. Uno dei soldati aveva sottobraccio un pacco di
manifesti non so di che colore; ma anche noi bambini sapevamo che di
qualsiasi colore fossero i manifesti dei tedeschi significavano sempre
guai. Istintivamente feci un giro largo per avvicinarmi alla nostra
macchina. In piazza e nelle vicinanze non si vedeva anima viva, oltre a
quei due. Ma da una finestra una faccia mi apparve e subito scomparve;
e mi sembrò che qualcuno mi chiamasse sottovoce da dietro una porta
socchiusa. Il tedesco con il berretto da ufficiale, o da sottufficiale,
per quello che potevo saperne, mi guardò senza dire niente, mentre si
dava una sistemata alla giacca e al cinturone. L’altro andò davanti alla
caserma dei carabinieri e dette un colpo con il picchiotto del portone.
Si affacciò dal balcone sopra l’ingresso il maresciallo. Stava
mettendosi la camicia. Vedendo i tedeschi rientrò subito. Dopo qualche
minuto uscì in strada con il cinturone in una mano, mentre con l’altra
finiva di infilarsi la camicia nei pantaloni. Finì l’operazione senza
fretta mentre si avvicinava ai soldati.
Il tedesco con il berretto gli
urla qualcosa. Il maresciallo scuote la testa e allarga le braccia per
dire che non capisce. Allora l’altro strilla in italiano che deve
consegnargli immediatamente la pistola. Il maresciallo apre il fodero e
la tira fuori. La tiene sdraiata nel palmo e fa per porgerla al tedesco,
ma, a metà gesto si ferma, raddrizza l’arma e gli spara in faccia.
Sentii un colpo come uno schianto
secco. L’altro soldato lasciò cadere i manifesti e dopo neanche un
attimo era scomparso dalla piazza con la sua moto. Una breve pausa e
ecco che salta fuori tutta la gente sparita: giovani urlanti dal bar e
da ogni dove mamme che strillano e strattonano i figli corsi a vedere il
morto.
Il maresciallo sembrava non udire
i giovani che gli chiedevano che fare. Poi due di loro, tra cui mio
fratello che aveva al braccio la fascia di carabiniere ausiliario,
presero il tedesco per i piedi e cominciarono a trascinarlo verso un
vicolo che portava a un orto. Degli anziani davano consigli. La testa
del morto strisciando sulle lastre di lava si lasciava dietro una
striscia di sangue, che subito altri giovani cominciarono a coprire con
manciate di terra. Riapparve dal nulla anche mia madre che mi trascinò
via. Mia sorella era già in macchina e mio padre aveva già messo in
moto. Mia madre voleva aspettare mio fratello, ma mio fratello era
scomparso.
La nostra macchina passava con
difficoltà tra due file di gente che scappava. Poche cose sottobraccio o
sulle spalle, fagotti legati male in testa alle contadine. Qualcuno
aveva caricato un carretto o una carriola. Dopo pochi minuti uscimmo
dalla ressa e imboccammo la strada sterrata di Corsano.
Mia madre non si dava pace per mio
fratello.
“Ho sentito che volevano inseguire
l’altro tedesco con la Gilera dei carabinieri,” disse mio padre.
Questo naturalmente non
tranquillizzò mia madre che voleva tornare indietro. Ma dopo che lei e
mio padre ebbero soppesati i pro e i contro, decisero di proseguire.
“E’ come un vero carabiniere, con
quella fascia al braccio; e se è suo dovere andare deve andare…”
concluse mio padre che da reduce della Grande Guerra di doveri militari
si intendeva.
Il viaggio proseguì per pochi
chilometri. La macchina traballava sul fondo sassoso della strada.
L’avevo percorsa soltanto a piedi quando si andava con tutto il vicinato
alla cappella della Madonna, alla fine di maggio.
Mancava poco alla cappella quando
nei pressi di un incrocio mio padre fermò la macchina accanto a un uomo
che stava fermo impalato davanti a una siepe. Era Pompilio, il contadino
che ci avrebbe ospitati. Subito rimosse le frasche intrecciate che
nascondevano l’imbocco nella siepe del sentiero che portava al suo
podere e salì sulla staffa della macchina reggendosi al portabagagli.
Ripartimmo giù per una discesa bruttissima dove non credo fosse mai
passata una macchina prima di quel giorno.
Invidiavo Pompilio che dritto
sulla staffa doveva godersela quella discesa paurosa. Arrivammo però
presto su un’aia circondata da tre casette scalcinate. Nella più grande
ci saremmo sistemati noi; Pompilio, che era vedovo, sarebbe rimasto
nella più piccola, sua abitazione abituale quando dormiva in campagna;
mentre la terza era metà pollaio e metà rifugio per i conigli e i
porcellini d’India che vedevo per la prima volta. Tra il pollaio e la
nostra casetta c’era un albero di gelso e sotto l’albero il canile di un
povero cane bianco e nero molto pauroso, che Pompilio voleva legare alla
catena, ma lasciò libero per le preghiere mie e di mia sorella.
Con il cane accucciato ai miei
piedi assistevo alle operazioni di scarico delle nostre cose. Quella
storia che noi fossimo degli sfollati non la capivo bene. Mi pareva che
la nostra situazione somigliasse un po’ a quella del confino politico
della nostra maestra. Qualcosa tentò di spiegarmi mia sorella che era
ormai grande anche lei. Ma non mi pareva possibile che i soldati
facessero la guerra anche a noi.
I grandi erano preoccupati, ma a
me piaceva essere uno sfollato. Cominciava una vacanza che non si sapeva
quando sarebbe finita. Compiti da fare niente. Avevo perso la maestra ma
ero anche sfuggito al supplente. Quanto ai miei compagni, speravo che
fossero diventati degli sfollati pure loro.
La macchina di mio padre sparì
durante una gita che facemmo al fiume io, mia sorella e il cane. E
quando indovinai che stava nascosta sotto un enorme mucchio di fieno che
Pompilio chiamava “mèta”, capii che se non volevo innervosire i miei
avrei dovuto far finta di non saperlo. Io ci riuscivo, ma il cane no,
perché voleva scavare nel fieno. Perciò lo legarono alla catena e io gli
facevo compagnia seduto sul canile, ai piedi del gelso rosso. Un poco
alla volta però mi scordai del dolore del cane e ripresi i miei giri su
e giù per i campi in pendio, i miei giochi con quei poveri porcellini
d’India che mi dissero venivano mangiati, e le spedizioni alla sorgente
insieme a Pompilio per rifornirci d’acqua. Pompilio mi faceva sedere in
groppa all’asino, dietro al basto carico di barili.
Un pomeriggio stavamo proprio
tornando con l’asino carico d’acqua su per il sentiero del costone,
quando puntò su di noi un caccia. Sparava; e Pompilio con una manata mi
buttò nei rovi della siepe, dove saltò anche lui nello stesso attimo. Il
caccia era venuto su dal fiume tagliando di sbieco rispetto al costone e
oscillando sulle sue ali mentre sparava. Ma non colpì neanche l’asino,
soltanto un barile che si sfasciò.
Quella sera mi fecero sentire un
eroe e io mostravo felice i graffi dei rovi. Pompilio mi lasciava la
parte principale e per poco non arrivò a dire che non volevo saltare giù
dall’asino perché non avevo paura.
Un altro pomeriggio, con il sole
quasi al tramonto, mio padre e Pompilio decisero di andare al paese a
cercare notizie. Chiesi che mi portassero con loro. Volevo cercare i
miei compagni. Pompilio era d’accordo, persino mio padre avrebbe ceduto
se mia madre, emesso un profondo sospiro per la stupidità degli uomini,
non gli avesse ricordato che c’erano senz’altro i tedeschi in paese, non
lo capiva? Badassero a cercare notizie di mio fratello e subito
indietro, senza impacciarsi con bambini.
Mi portarono soltanto sino alla
strada principale. Me ne tornai giù tagliando attraverso il campo arato,
trascinandomi dietro un’enorme branca secca che avevo strappato dalla
siepe. Scendevo verso le case e ai miei lati mi sopravanzava la nuvola
di polvere sollevata da quel mezzo albero che mi tiravo dietro.
Mia sorella stava di vedetta ad
aspettarmi; ma non capì che ero io la causa del polverone e cominciò a
risalire il viottolo che passava lontano dalla linea che seguivo io
attraverso il campo. Sapevo che veniva a cercarmi, la vedevo benissimo,
ma non la chiamai. Anzi, anziché procedere verso le case, piegai verso
uno spuntone di terreno incolto che non avevo ancora esplorato. Trovai
un piccolo spiazzo sotto un parete d’arenaria. C’erano dei rovi legati a
fascine ammucchiate contro la roccia. La curiosità e anche la voglia di
non farmi trovare subito da mia sorella mi spinsero a studiare la
situazione.
Mi infilai tra la rupe e i rovi
e dopo qualche metro mi trovai all’ingresso di una grotta. Poco oltre
l’imbocco, iniziava un cunicolo che era stato scavato col piccone, come
capii dai solchi nelle pareti. Il cunicolo terminava contro una porta
sconnessa. Attraverso le fessure si vedevano delle casse. Sentii però
proprio in quel momento il fruscio delle fascine che venivano spostate.
Mi infilai in una nicchia accanto alla porta e mi ci acquattai. Dopo
neanche un minuto vidi entrare – chi se lo sarebbe aspettato? – il
supplente. Insieme a lui entrò anche un contadino, un giovane che mi
sembrava di conoscere. Trasportavano una lunga cassa che depositarono
oltre la porta, lì dentro tolsero il coperchio e tirarono fuori dei
fucili o dei mitra che fossero ai miei occhi inesperti. Uscirono
all’aperto e rientrarono con un’altra cassa, e quando furono di nuovo
oltre la porta, che in parte mi copriva ai loro occhi, ne approfittai
per scappare.
Arrivai sull’aia felice di essere
sfuggito a quel brutto picchiatore di innocenti e con la voglia di
raccontare quello che avevo visto alla grotta, ma i miei neanche si
accorsero che ero tornato perché era arrivata gente dal paese. In mezzo
a loro una figura mi fece battere il cuore: la maestra Emini con i
pantaloni e uno zaino sulle spalle. E anche gli altri avevano zaini e
valige. I paesani venuti insieme alla maestra erano tutti confinati
politici e stavano cercando un percorso sicuro per seguire l’avanguardia
degli americani che scendevano al fiume lungo la provinciale.
Ricordo che stavamo tutti nella
casa grande intorno al fuoco ad arrostire e mangiare ceci, quando al di
sopra della mezza porta d’ingresso s’affacciò il giovane contadino che
avevo visto alla grotta.
Il giovane si guarda intorno e
scocciato dice rivolto a Pompilio: “E che, hai messo l’albergo che tieni
qua tutta ‘sta gente?”
Pompilio si alza e si allontana
dalla casa insieme al figlio. Era infatti suo figlio che si pensava
fosse scomparso in Russia, ma che molti avevano visto aggirarsi per le
nostre campagne sempre con cartucciera e fucile da caccia a tracolla.
Non ricordo quanto tempo stettero
con noi i confinati. Mi pare solo una notte, o almeno solo fino a
mezzanotte, perché mia madre non mi aveva ancora mandato a letto quando
partirono in direzione del fiume. Era arrivato dopo di loro anche padre
Giacomo che voleva fare il viaggio insieme agli altri sino a Benevento.
Dovetti salutare la mia maestra.
Mi disse che stava per fare un lungo viaggio tutto a piedi. Mi avrebbe
scritto una cartolina da ogni città attraversata, ma con le poste ancora
così incerte avrei dovuto avere molta pazienza se non arrivavano con
regolarità.
La certezza di perderla e
l’orribile prospettiva di ricadere nelle mani del supplente mi
sprofondarono in un dolore muto, senza lamenti. Forse il mio primo
dolore da adulto.
La maestra allora si inginocchiò
accanto a me e restò a lungo guardarmi in silenzio, sino a quando
dovette avviarsi insieme agli altri giù per il costone che scendeva al
fiume.
La mattina dopo guardavo in
direzione del fiume sperando di vedere i confinati da qualche parte,
quando vidi una fila di camion, motociclette e gente a piedi che
attraversavano il ponte e risalivano il monte di fronte. Un aereo
piccolo come quello che ci aveva mitragliato faceva giri a bassa quota
sopra la colonna. Ma intorno all’aereo si gonfiavano degli sbuffi
bianchi come quelli che restavano dopo gli scoppi dei fuochi
artificiali alla festa del santo.
“La contraerea dei tedeschi,”
disse mio padre.
Quella notte fu fatto saltare il
ponte. I tedeschi che si coprivano le spalle, spiegò ancora mio padre.
La mattina successiva lui e Pompilio liberarono la macchina dalla paglia
e partimmo per tornare al paese.
Il cane ci seguì correndo nella
polvere, ma io pensavo ai miei amici e non mi rattristai vedendolo
sparire dopo qualche curva. Imboccammo la strada principale ma dopo poco
dovemmo fermarci perché c’era gente dappertutto, tutti correvano, tutti
urlavano: stavano arrivando gli americani. Scesi dalla macchina senza
chiedere permesso e m’intruppai con alcuni compagni che passavano di
corsa. Arrivammo al convento e lì c’erano camion, autoblindo, carri
armati che venivano avanti e che sembravano non finire mai. E c’era
tanta gente, specialmente ragazze, ai lati della strada e che si
intrufolava tra un mezzo e l’altro, a rischio di farsi sfracellare dai
cingoli. E tanti bambini s’infilavano tra le gambe dei grandi, salivano
sugli alberi e sui pali della luce, venivano tirati sui carri dai
soldati. Anche due miei compagni di classe vidi appesi alle braccia
degli americani, mentre masticavano con grandi smorfie delle stranissime
caramelle di gomma.
Dietro i carri armati comparve
una banda militare. Erano tutti soldati neri, enormi, che marciavano a
passo di danza. Anche noi cercavamo di fare come loro copiando il passo.
Eravamo stregati peggio che i topi nella fiaba del pifferaio magico.
Nella piazza i primi camion fecero
cerchio intorno al monumento ai caduti e la banda si fermò ma
continuando a suonare. Nel ricordo mi sembra che non smettessero poi per
tutto il tempo che la colonna restò al paese. Non erano marce che
somigliassero minimamente a quelle delle bande municipali che
accompagnavano la processione nella festa del santo. Altra musica, una
musica che non si poteva ascoltare rimanendo fermi. E gli stessi
suonatori suonavano danzando, contorcendosi, con gli occhi chiusi e gli
strumenti sbattuti di qua e di là.
Dal balcone di un palazzotto che
s’affacciava sulla piazza sventolavano una bandiera americana. Era il
supplente che l’aveva trovata chissà dove. E urlava con la sua brutta
vociona : “Compañeros americanos”. Così, in spagnolo, lo giuro.
Capitolo 2
Avevo scritto di getto ciò che
riporto nel capitolo precedente, spinto da quella impressione provata
sul monte; però, tornato in città, fui subito assalito dai dubbi quanto
all’accuratezza della mia ricostruzione. E anche quei particolari che
dopo una prima rilettura mi sembrava che non avessi alterato, anche
quelle poche punte nette, definite, emerse dalla nebbia del passato,
cominciarono ad apparirmi quasi spezzoni, frammenti di sogni
riappiccicati insieme alla bell’e meglio dopo il risveglio.
Durante un altro ritorno al paese,
a circa un anno di distanza da quello in cui mi si erano scatenati i
ricordi, vidi seduto nella piazza del monumento, intento a leggere il
giornale, un uomo che ero sicuro avrebbe potuto darmi informazioni
accurate su almeno un aspetto importante di quegli avvenimenti. A quell’epoca
giovane più o meno dell’età di mio fratello, figlio del podestà e di
madre tedesca, sapeva senz’altro quale ruolo sua madre aveva svolto, o
tentato di svolgere, per far scampare al paese la rappresaglia dei suoi
connazionali per l’uccisione del loro ufficiale. Qualcosa aveva fatto,
ma che cosa non avevo mai saputo esattamente.
Non avevo mai avuto rapporti di
nessun genere con lui, salvo aver scambiato qualche saluto di cortesia
come si fa anche tra estranei in un paese piccolo. Avevo avuto però
l’occasione di diventare amico di suo figlio, prima “virtualmente”
partecipando a un forum su Internet nel quale si dibattono questioni
paesane, e poi di persona (live, come si dice) durante un soggiorno
abbastanza prolungato al paese. Conobbi allora anche la moglie. La
simpatia della giovane coppia chissà come mi fece cambiare l’idea che mi
ero fatta del loro padre e suocero, che consideravo altero e scostante.
Quel giorno non mi feci scrupolo
di interrompere la sua lettura. Chiesi del figlio e dopo pochi preamboli
l’interrogai sull’episodio dell’uccisione del tedesco. I miei timori di
importunarlo si dimostrarono totalmente infondati perché cominciò a
parlarmene volentieri e ripiegò il giornale.
La sua versione del fatto
stravolse quasi interamente la mia ricostruzione. Sua madre era venuta
a vivere in Italia nel paese del marito, portandosi dietro sua sorella.
Fu in effetti sua zia, ricordava il figlio del podestà, che d’accordo
con sua madre si diede da fare per evitare al paese conseguenze gravi
dopo che il maresciallo ebbe ucciso quell’ufficiale. Il fatto non era
avvenuto però al paese (e qui si meravigliò moltissimo del mio errore),
ma nella vicina cittadina, all’epoca sede di un comando della Wehrmacht.
Il nucleo della storia era comunque quello: il maresciallo Nastro aveva
fatto finta di obbedire all’ordine di consegnare la pistola rivoltogli
burberamente da un ufficiale tedesco di alto grado che gli si era parato
davanti alla fermata delle corriere della cittadina, aveva sfoderato
lentamente e aveva fulminato l’ufficiale con un colpo al centro della
fronte. Strano che non sapessi i particolari perché tra gli altri
testimoni c’era anche mio fratello, all’epoca conducente della corriera.
La prima corriera mai esistita in paese e di cui si servivano anche i
carabinieri, visto che non avevano mezzi di trasporto autonomo, oltre a
una scassata Gilera sempre in riparazione nel garage di mio fratello.
Erano i giorni della grande
confusione createsi dopo l’8 settembre del 1943, e i tedeschi
consideravano tutti gli italiani traditori. Il coraggio del maresciallo
era fuori di dubbio perché l’ufficiale ucciso non era solo. I soldati
che l’accompagnavano preferirono però scappare.
Sua zia entrò nella storia per un
risvolto del dramma principale accaduto questo sì al paese. Alcuni
giovani volenterosi improvvisatisi carabinieri ausiliari avevano
catturato due soldati tedeschi giunti nei paraggi con un sidecar. Erano
stati portati in caserma e l’unico carabiniere rimasto a presidio aveva
pensato di chiuderli in prigione. Quando tornò il maresciallo e in paese
scoppiò il panico per la temuta rappresaglia, ecco che la zia si offrì
di andare a parlare con i prigionieri. Molti pensavano che i due soldati
sapessero dell’uccisione dell’ufficiale, senza riflettere che nel
momento in cui succedeva il fatto loro erano già chiusi in prigione e in
un paese distante dieci chilometri dalla cittadina.
Il mio informatore non
ricordava, o, forse, aggiunse pensandoci meglio, non gli era mai stato
confidato che cosa la zia avesse detto ai suoi due connazionali nel
segreto della prigione. I suoi non si saranno evidentemente fidati di
lui, perché era ancora un ragazzo all’epoca. Soltanto sapeva che
all’uscita la zia aveva consigliato di liberarli con tante scuse e
lasciarli andare immediatamente. Perché poteva succedere che se al
comando tedesco imparavano che in paese erano tenuti prigionieri due dei
loro, magari scoprivano anche il fatto più grave: cioè, che il
maresciallo Nastro era del paese. Fatto sta che i due soldati furono
liberati e i compaesani non ebbero a pentirsene. Che fine facessero quei
due nessuno poté ovviamente mai sapere. I tedeschi erano in fuga e gli
americani sbarcati a Salerno risalivano l’Appennino per congiungersi con
gli inglesi che venivano dalle Puglie.
Della maestra Emini ebbi
informazioni da un altro coetaneo di mio fratello. Ē una persona
ritenuta strana, non saprei se per il fatto che vive in una casa molto
particolare o perché ritiene di essere un erudito di ogni sapere. In
paese si usa un qualificativo intraducibile in italiano per indicare un
tipo così. Per intenderci, è uno a cui piace chiacchierare per ore di
cose che interessano soltanto a lui. Perciò interrogarlo riguardo a
qualsiasi cosa espone a gravi rischi. Contorce ogni argomento per
giungere agli argomenti preferiti stiracchiandoli poi sino allo spasimo
finché il suo interlocutore non crolla per terra o non viene salvato dal
passaggio nel campo visivo dell’oratore di una bella ragazza. Quanto
alla casa potrebbe essere abbastanza normale se non fosse che egli l’ha
trasformata in un magazzino che somiglia al caos primigenio, cioè nella
rappresentazione plastica dell’ingegno multiforme del padrone. Un
magazzino delle più scassate e inutili cose, che traboccano dalle
finestre, dalla porta e dal garage, in cui si frollano nella ruggine due
vecchie utilitarie, e poi dentro e fuori casa vecchie stufe, biciclette,
motorini, comò sventrati, cassette di mele marcite, frigoriferi riversi,
rotoli di filo spinato, cavi della luce, inciampi vari, cassette di
patate ecc. tutte cose straripate sino a invadere buona parte della
strada, dove provocano non poche difficoltà ai passanti distratti. Tutti
i paesani sono però convinti che sarebbe il miglior fotografo del
circondario se riuscisse a rintracciasse tutte le volte che gli serve
almeno una macchina fotografica tra le tante sepolte che dice di
possedere, e, trovatene una, che fosse completa di obiettivo, flash,
ecc.
Il fotografo non era a casa.
Trovai anche lui nella piazza del monumento, intento a far commenti a
mezza voce sulle gambe e altre notevoli parti corporee delle ragazze che
gli passavano davanti. Senza che io dicessi niente, egli si scusò
sostenendo il suo diritto d’artista a tenersi aggiornato sui nuovi modi
di mostrare il corpo in questi nostri tempi di veloci
cambiamenti.
Sulla maestra Emini l’unica cosa
che contraddisse della mia ricostruzione fu che non era lei la confinata
politica, ma la madre. Questa madre imprevista fu peggio di un mattone
cadutomi in testa perché ora avrei dovuto sistemare anche lei nella
casetta antisismica, con il risultato che quel minimo decoro che avevo
tentato di dare alla residenza della maestra – la quale nel ricordo mi
sembrava quasi un piccolo tempio, un rifugio fatato sul limitare della
nostra bella pineta – svaniva e la casetta mi si presentava per quello
che era stata realmente: cioè un tugurio angusto. Feci qualche
obiezione: forse la madre abitava da un’altra parte visto che io non
l’avevo mai vista durante le mie visite e la maestra non poteva essere
stata sistemata peggio dei poveri più poveri del paese, e il fotografo
mi capì: la casa era piccola ma quelle donne la tenevano lustra e netta
più che i loro palazzotti le borghesi paesane aiutate dalle serve.
Aggiunse che tra i suoi vecchi negativi doveva essercene uno – certo non
facile da trovare subito – che sviluppato mi avrebbe mostrato la mia
maestra sulla soglia della casetta e, affacciata all’unica finestra, la
madre. Declinai l’offerta senza esternare i miei timori riguardo alla
fattibilità della cosa e lo lasciai proprio quando comparve nel suo
campo visivo una ragazza con un ombelico veramente notevole in mostra.
Probabilmente nemmeno si accorse che me ne andavo.
Delle altre varianti e sviste
della ricostruzione riportata nel primo capitolo non dico niente perché
riguardano soltanto aspetti marginali. L’esperienza maturata nella sua
stesura e nelle verifiche con i testimoni mi ha comunque messo in
guardia e perciò procedo nel cammino intrapreso con una cautela quasi da
storico accademico.
Capitolo 3
Dopo il passaggio degli
americani, arrivarono in paese due o tre centinaia di soldati italiani
che trasformarono la nostra scuola in caserma. Erano comandati da
ufficiali inglesi e vestivano strane divise. Passati i primi giorni in
cui furono guardati con stupore misto a sospetto, diventarono in breve
tempo quasi tutti figli adottivi delle famiglie. Ognuna di esse aveva il
suo soldato, al quale, meno che l’alloggio, si dava quello che si
poteva: gli si lavava la biancheria, gli si stirava la divisa, ma
soprattutto gli si dava da mangiare, perché le donne di casa
compiangevano i soldati per le schifezze del loro rancio. Il loro
corredo era più o meno militaresco perché comprendeva, sì, come base una
divisa appartenuta a un soldato inglese morto probabilmente in Africa
(come testimoniavano macchie indelebili e buchi bruciacchiati), ma per
il resto veniva completato da scarpe, cappotti e altri capi di vestiario
dei paesani partiti in guerra. Loro si sdebitavano con lavoretti di
riparazione, di imbiancatura di stanze e cose simili. Nelle famiglie più
abbienti venivano ospitati persino due o tre soldati, e questo dava la
misura della condizioni economiche buone o soltanto vantate della
famiglia ospite.
In casa mia venivano due
soldati, però credo che si trattasse di due amici inseparabili e non
c’entrasse quindi la voglia di ben figurare agli occhi dei compaesani se
i miei ne avevano preso in casa due. E forse c’era anche un’altra
ragione: mia sorella era allora una ragazza di diciannove anni molto
carina e abbastanza corteggiata, ma gli spasimanti disponibili allora in
paese erano solo ragazzini di età inferiore alla leva militare. E anche
se un soldato forestiero non poteva certo essere preso in considerazione
come possibile fidanzato, la situazione era ormai quella: in paese
circolavano giovani uomini, uomini fatti che potevano far girare la
testa alle ragazze. Se capitava anche alla propria figlia, era meglio
tenere la situazione sotto controllo praticando il giovane, e meglio
ancora se c’erano due possibili pretendenti a controllarsi a vicenda.
Ricordo infatti che si andava a
spasso sempre in questa formazione: io di fianco al soldato più
simpatico, Pina in mezzo e all’altra ala il soldato più cotto delle
grazie di mia sorella, ma il più triste perché lei preferiva ovviamente
il più simpatico. Questo si chiamava Romano ed era originario proprio
della capitale. Il compagno viveva anche lui a Roma prima della guerra,
ma apparteneva a una famiglia meridionale trasferitasi lì quando lui era
piccolo. Sia lui che l’amico avevano tentato di passare le linee dopo
l’8 settembre, ma erano finiti in braccio agli inglesi.
Mia sorella, che ho perduta
purtroppo molto presto, diceva di essere stata in corrispondenza con
Romano quando egli e tutto il reggimento erano partiti per il fronte. Le
lettere di lui erano state spedite quasi tutte dal fronte di Cassino,
meno qualcuna dalle retrovie nei periodi di riposo. A Cassino i tedeschi
resistettero più di cinque mesi, dalla fine dell’autunno 1943 sino alla
primavera inoltrata del 1944, protetti dalla fortissima linea di difesa
Gustav, il cui cardine era costituito dal monte Cairo e dal colle su cui
sorgeva l’antico monastero di San Benedetto.
Di queste lettere mia sorella fu
sempre custode gelosa e le conservò senz’altro sino al suo matrimonio
quando, faccio questa ipotesi, le avrà sicuramente distrutte per non
dispiacere al marito. Una lettera in particolare, però, scritta da
un’altra persona, ma anch’essa proveniente dal fronte di Cassino, lei
conservò sino alla morte. Il suo corrispondente era il padre guardiano
del convento dei frati minori del paese, padre Giacomo, che aveva
seguito a Cassino i soldati italiani come ufficiale cappellano del
redivivo regio esercito del Sud. In quella lettera si parlava tra altre
cose anche di sentimenti amorosi ma essi non riguardavano mia sorella.
Padre Giacomo non era partito
insieme ai soldati. Per un certo tempo stette a Benevento presso
l’arcivescovado, che però abbandonò dopo il bombardamento alleato che
distrusse insieme alla sede del cardinale arcivescovo anche l’antica
cattedrale lombardo romanica ad essa attaccata, quasi segno premonitore
della distruzione più famosa, alcuni mesi dopo, dell’ abbazia di
Montecassino. Dove si fosse rifugiato subito dopo padre Giacomo resta da
scoprire. I preti del capitolo e i religiosi che costituivano
l’entourage del cardinale si dispersero nelle parrocchie e molti
tornarono ai paesi d’origine. Padre Giacomo però non tornò al convento
del paese e di lui per un po’ di tempo si persero le tracce. Alcuni
pensavano che fosse morto sotto il bombardamento, ma molte lingue
taglienti tra le devote del convento dicevano di essere sicure che il
frate fosse riuscito ad attraversare le linee con destinazione Torino.
Sapevo della lettera in
possesso di mia sorella, ma dopo la morte di lei nessuno di famiglia mi
seppe dire dove fosse andata a finire. Fu soltanto per caso che potei
ritrovarne le tracce e, anzi, scoprire che quella lettera era stata
soltanto la prima di una serie che il padre cappellano aveva scritto a
delle giovani corrispondenti paesane. Ma meglio riferire con ordine.
Durante le mie brevi visite al
paese nativo passavo spesso davanti all’ingresso di una casa in cui
sapevo che abitava una amica d’infanzia e di gioventù di mia sorella. Mi
ero fatto sempre scrupolo di bussare per andarla a salutare, timoroso di
rivangare vecchi ricordi che forse non stavano più in cima ai pensieri
di quella anziana rimasta sola. E che era bloccata in casa a causa di
forti dolori alle gambe.
Passando la vedevo occhieggiare
in strada da dietro le tendine della porta a vetri. Un giorno che la
porta era socchiusa presi coraggio e bussai. Si ricordava benissimo di
me, nonostante le mie rapide visite che avevo ripreso dopo un’assenza
ininterrotta di decenni dal paese. Mi offrì il tè ed entrò per prima
cosa a parlare del tempo in cui lei e mia sorella erano state
inseparabili. Venendo avanti dal tempo dell’infanzia giunse a
raccontarmi, senza che io la indirizzassi minimamente in quella
direzione con domande particolari, di quel famoso anno che io ho scelto
come inizio di questa ricerca. Lei, mia sorella e un’altra amica che
sposò un americano erano il trio femminile della
schola cantorum” (così era stata
chiamata da padre Giacomo) del convento dei frati minori francescani.
Il coro era costituito soprattutto da ragazzi e non si poteva dire che
loro tre ragazze non fossero state oggetto di pettegolezzi messi in giro
dalle devote che frequentavano la chiesa del convento. Che delle ragazze
carine frequentassero il convento e non mettessero mai piede nei
chiostri della clausura chi poteva crederlo?
Il coro era stato formato e veniva
preparato da padre Giacomo, che essendo l’unico monaco non vecchio in
mezzo a tanti confratelli decrepiti, si può dire che faceva tutto lui in
convento: guardiano, maestro del coro, predicatore, confessore e
insegnante di tanti giovani che volevano proseguire gli studi da
privatisti oltre la scuola elementare – unico livello d’istruzione
esistente nel paese. Da quando era tornato dall’Africa i giovani, maschi
e femmine, erano stati attratti dalle sue iniziative e stavano sempre al
convento. Molte ragazze erano probabilmente anche affascinate da
‘st’uomo alto, elegante nella sua divisa sempre fiammante, come precisò
l’amica di mia sorella, e voleva farmi vedere la sua foto, che non
trovò; divisa che non smise subito, nonostante tutto lo sconvolgimento
dopo l’8 settembre.
“Si diceva che fosse innamorato
della maestrina piemontese, che abitava proprio di fronte al convento; e
questa vicinanza stessa insospettiva. Ma io e tua sorella sapevamo la
verità. La loro storia si complicò, diventò una storia in cui sarebbe
poi entrato, diciamo, l’amore. Ma all’inizio si trattava solo di
amicizia. Amicizia con lei, con noi, con tutti. Padre Giacomo parlava
volentieri con lei, una ragazza colta, perché mi sembra che avesse fatto
l’assistente nella università della sua città, prima di finire al
confino nel nostro paesino sperduto. Parlavano passeggiando nel piazzale
davanti al convento, o seduti sui gradini della casetta della maestra,
sotto gli occhi di tutti. Parlavano di libri, di politica, di qualsiasi
cosa. La ragazza era comunista, però non litigavano mai, neanche se
parlavano di politica. Per il paese avere una maestra così era un lusso.
Gli altri insegnanti, quasi tutti maschi, dei rozzi che picchiavano i
bambini, spesso con il permesso dei genitori, si può dire che non
sapessero neanche parlare italiano. Poi lei partì. Partì pure lui. Noi
che eravamo state sue allieve cercavamo di difenderlo dalle maldicenze;
ma i fatti erano quelli: prima l’una, poi l’altro erano spariti. Finché
arrivò la prima lettera di padre Giacomo. L’aveva indirizzata a tua
sorella, ma era destinata anche a me e a Enza, l’altra nostra amica
inseparabile…”
“La prima? Perché, altre ne
scrisse?”
“Oh, tante. Ma ascolta.”
Capitolo 4
Teano, 2 novembre 1943
Cara Pina,
permettimi di salutare tramite te anche Enza e Leonardina. Anzi,
se non ti dispiace, altre volte scriverò, se potrò continuare a farlo,
indirizzando le mie lettere anche a loro, con il sottinteso che esse
saranno sempre rivolte a tutte e tre. E del resto potrete leggerle,
cominciando con la presente, anche ai ragazzi del nostro glorioso coro,
se lo riterrete opportuno. Sarà così come se continuassimo le nostre
conversazioni seduti sui gradini dell’olmo davanti al convento,
ricordate?
Vedo tutti i giorni cose orribili. Violenze, ruberie,
distruzioni. Finché ero in Libia vedevo i guasti della guerra nei nostri
soldati e, quando c’erano prigionieri, nei soldati nemici, inglesi o
egiziani. Profondissimi sconvolgimenti nelle loro anime, prima che nei
loro corpi. Ma ora, ora le vittime sono civili indifesi, donne, bambini
e anziani. Un episodio di cui non vorrei parlarvi è avvenuto in un
convento di questa cittadina, un povero convento già mezzo distrutto dai
bombardamenti in cui suore dell’ordine delle Orsoline accudivano a
sfollati rimasti senza casa.
Ero arrivato al convento mandato dal nostro arcivescovo. A
Benevento non era rimasto si può dire nessuno di noi fratelli o altri
ecclesiastici dopo la distruzione completa del duomo. Ero stato mandato
a Teano per vedere se dalle Orsoline o in altri edifici appartenenti
alla chiesa era possibile accogliere dei vecchissimi canonici del
capitolo arcivescovile di Benevento. Avevo sistemato alcuni di loro nel
convento del mio ordine, a Cerreto. Me ne rimanevano però sulle braccia
altri tre. Preti decrepiti mai usciti non dico dalla città ma nemmeno
dal recinto sacro del Duomo per allontanarsi di cento
passi.
Un brutto fatto, o forse dovrei dire orribile, è successo a Teano
dopo nemmeno un giorno che ero qui. Avevo deciso di non riferirvelo
tanto è tremendo, ma poi ho ricordato che mai in quelle poche lezioni di
formazione religiosa che vi avevo dato, così, senza parere, conversando
sotto il nostro olmo anche di cose leggere e perfino scherzose, mai vi
avevo nascosto che stiamo vivendo in tempi nei quali tutta la feccia e
la bruttura che stanno di solito nascoste nell’animo umano ci sono
state versate addosso. E’ necessario perciò che specialmente voi giovani
donne prendiate coscienza della realtà così come essa può presentarsi
oggi. E paradossalmente proprio quando c’eravamo illusi che questa
orrenda guerra fosse finita. Ma ascoltate.
Bene, care amiche, ecco che cosa è successo si può dire sotto i
miei occhi. Stavo controllando come erano stati sistemati i miei vecchi
canonici, al primo piano del convento. Uno dei canonici più anziani non
smetteva di lamentarsi della cella che gli era toccata, quando sentii
delle terribili urla giù nel chiostro sul quale si affacciavano le celle
che ci erano state destinate. Urla più spaventose di quelle dei feriti a
morte in guerra che avevo udito tante volte. Mi affacciai e vidi due o
tre figure nere passare correndo nel porticato opposto. Con gli abiti
svolazzanti come ali di grossi uccelli neri, figure che mi parvero di
diavoli scappati dall’Inferno. Proprio così: pensai a dei diavoli. A dei
diavoli urlanti.
Quei diavoli erano suore che scappavano dopo aver scoperto in
chiesa qualcosa che ora, scegliendo bene le parole, tenterò di
riferirvi.
Neanche mezz’ora prima, era entrato nella chiesa un gruppo di
soldati algerini. Gente primitiva delle montagne dell’Atlante che i loro
istruttori e padroni transalpini liberavano dal guinzaglio quando li
riportavano dal fronte a riposare nelle retrovie. Dopo aver girovagato
per il paese si erano affacciati in chiesa e viste le religiose in
preghiera si erano avventati su quelle disgraziate peggio che i lupi
sulle pecore di un ovile.
Entrai in chiesa ma non riuscii a tenere fermo lo sguardo su
quello che c’era da vedere. Le parole non possono nemmeno lontanamente
bastare a riferire ciò che mio malgrado mi si impresse negli occhi in
quei pochi secondi in cui ancora incerto sull’accaduto mi guardavo
intorno nella semioscurità delle navate.
In poche parole, avevano violentato e ucciso tutte le sorelle che
non erano riuscite a rifugiarsi nel campanile: le povere scampate che mi
erano parse diavoli dalle ali nere. Quando però avevano potuto dare
l’allarme la strage era già compiuta e i criminali già scomparsi.
Mi ero già presentato al comando alleato di Caserta un paio di
giorni prima per informarmi se potevo riprendere servizio come
cappellano militare. Il nuovo governo italiano aveva invitato i nostri
soldati dispersi a presentarsi al distretto più vicino. Lì avevo
scoperto che nella commissione di arruolamento c’erano soprattutto
ufficiali degli eserciti alleati. Tra i francesi c’era anche un
cappellano, un uomo massiccio, dalla faccia simpatica. Con lui ho poi
iniziato varie volte un discorso ma senza mai giungere a una conclusione
soddisfacente: quello sul ruolo che dovrebbero assumere i cappellani
militari schierati dai vari eserciti in guerra tra loro, i quali tra
tutti i compiti svolti non danno minimamente spazio a una cosa
fondamentale per un prete servitore di un Dio che in guerra non può
dividersi tra una parte e l’altra: far riflettere e riflettere essi
stessi, cioè, che la guerra è un abominio e che ammazzare non può
rientrare per nessuna ragione nel comportamento di un credente nel Dio
dell’amore.
Ma ritornando al fatto, mi precipitai per prima cosa proprio da
questo cappellano. Stava indossando la stola mentre un ufficiale
inginocchiato aspettava di confessarsi. Mi fece segno di aspettare e io
non me la sentii di interromperlo. Ne approfittai per pregare. Le parole
che tentavo di raccogliere in frasi con un significato erano onde
impazzite come quelle che si rompono contro le scogliere nelle tempeste.
Quando Dio volle padre Blaise, si chiama così, finì di confessare e io
mi alzai subito per andargli incontro. E intanto che attraversavo la
navata centrale, per quelle strane associazioni di pensieri che non si
sa come avvengono, vidi, come succede nella dormiveglia, vidi una cosa
che bruciava, un libro… meglio, una pergamena arrotolata che andava a
fuoco. Mi pareva perfino di sentire l’odore di bruciato. Mentre già
aprivo la bocca per salutare il confratello, ricordai che era stato lui
a dirmi che proprio nella chiesa dov’eravamo in quel momento, era
successo che, tanti secoli prima, più o meno verso la fine del IX
secolo, la copia originale della Regola di San Benedetto, quella dell’
“Ora et labora”, fu distrutta da un incendio. Ce l’avevano portata i
monaci di Montecassino per salvarla dai Saraceni che avevano assalito
l’abbazia cassinese. Una visione strana proprio in quel momento.
Il cappellano francese mi prese sottobraccio e mi portò in
sagrestia con espressione molto preoccupata, evidentemente a causa di
quella che leggeva sulla mia faccia. Riuscii a raccontargli la cosa
orribile che era successa alle monache. Subito rivestì la divisa e mi
accompagnò al comando degli Alleati. Blaise chiese dell’ufficiale
francese responsabile delle truppe nordafricane. Questo tipo mi aggredì
non appena cominciai a riferire il fatto. Credevamo noi italiani che la
guerra fosse un gioco da bambini? Egli aveva ai suoi ordini dei
volontari che avevano accettato di combattere per liberare il nostro
paese dalla dittatura e a cui egli tutti i giorni chiedeva di affrontare
la morte. Se nelle retrovie, nelle ore di riposo, e prendendosi loro la
piena responsabilità, agivano magari male, come poteva lui
impedirglielo? Come poteva perdere tempo a fare inchieste proprio il
giorno prima di rispedirli al fronte? Perché c’era una fronte poco
lontano, non lo sapevo?E via di questo passo a giustificare le sue
bestie feroci. Conoscevo già quel tipo di ragionamento che poi finisce
sempre allo stesso modo, un ragionamento che avevo sentito anche sulle
labbra di ufficiali italiani quando erano i nostri soldati in Africa a
fare violenze: i combattimenti avrebbero presto fatto giustizia, bastava
aspettare. Non avevo mai saputo o non avevo mai visto che fine facevano
i soldati mandati in prima linea? Quale delitti potevano aver mai
commesso che non pareggiassero le atrocità e le sofferenze della morte
sotto i bombardamenti a tappeto e negli assalti del corpo a corpo?
La tensione che ero riuscito sino a quel momento a dominare
esplose. Mi ero slanciato verso di lui e l’avrei preso per la giubba o
anche per la gola non ci fosse stato Blaise a bloccarmi.
Non vi racconto poi quante offese quell’ufficiale urlò contro gli
italiani traditori, fascisti e ingannatori. Allora lo salutai, capendo
che non avrei avuto da lui alcuna collaborazione e con Blaise tornammo
in chiesa. Agli occhi di quel francese io ero un italiano come un altro:
la mia condizione di sacerdote era soltanto un grado militare
appiccicato sulla divisa.
Ma ora chiudo questa lettera promettendovi di scriverne un’altra
non appena potrò farlo. Come aveva detto l’ufficiale francese, si parte
per la prima linea domani mattina presto.
Vostro fratello in Cristo,
padre Giacomo, dei frati francescani minori.
P.S. Della nostra maestrina torinese ho saputo soltanto che si trova a
Scauri, vicino Formia, da dove tenta di imbarcarsi per aggirare le
linee via mare.
Leonardina, o Dina come mi autorizzò a chiamarla, ripiegò la
lettera. Era una copia che aveva riscritto lei stessa parola per parola
riproducendo l’originale che aveva conservato mia sorella. Quella prima
lettera era stata seguita da molte altre indirizzate anche a lei. E me
le mostrò dopo essere andata a cercarle. Le avrei potute leggere e anche
usare se avessi voluto.
Capitolo 5
Dovrei ora riprendere con le mie
verifiche di documenti e testimonianze, però preferisco continuare con
la corrispondenza di padre Giacomo, magari estraendo dalle lettere che
egli scrisse successivamente, e che indirizzò sempre a Dina – forse
perché era l’unica delle tre amiche a non avere un innamorato che
potesse insospettirsi di quella fitta corrispondenza – estraendo,
dicevo, soltanto i brani che più ci interessano.
Con data di poco posteriore a
quella della prima lettera, il cappellano scriveva:
“…voi siete ormai fuori da questa
guerra. Ma qui, lungo una linea di resistenza dei tedeschi, che va
grosso modo da Formia, sul Tirreno, sino a Pescara sull’Adriatico la
guerra è tornata. Una guerra che viene combattuta in trincea, come
quell’altra orribile del 15-18. L’impressione perciò è che il conflitto
non sia mai cessato da quell’epoca e i generali cercano di documentarsi
sui vecchi manuali per trovare il modo di sfondare le linee nemiche. Con
l’arrivo delle continue piogge e dopo che le truppe alleate si sono
affacciate nella piana del fiume Liri, a sud della città di Cassino, si
sono ritrovate impantanate con i loro inservibili carri armati in un
mare di fango. Si sta tentando di creare delle trincee, ma questa
operazione è diventata quasi impossibile dopo che i tedeschi hanno rotto
gli argini del fiume che dà il nome alla piana e anche di altri corsi
d’acqua che in tempo di pace fanno la fortuna di questi campi. Il
peggiore è il fiume chiamato non a caso Rapido le cui acque scendono
velocissime dall’Appennino e provocano delle vere alluvioni quando
sbucano da una gola poco distante dalla città. Di solito, dopo appena
qualche ora da un acquazzone arriva la piena di questo fiume che
d’estate, dicono gli abitanti di qui, quasi non porta acqua. Ora invece
senti prima il rumore e poi vedi le sue acque limacciose precipitarsi a
valle, trasportando cadaveri di muli e soldati che galleggiano in mezzo
a travi, mucchi di paglia, e povere masserizie strappate alle case
distrutte dei contadini Il tutto poi rallenta nella palude della piana
formando delle isole nelle anse o contro gli ostacoli seminati
nell’acqua dalla guerra. Del fetore che si alza da queste isole quando
appare un po’ di sole non vi dico niente.
In questo paesaggio da fine del
mondo soldati e popolazioni di questi paesi vagano tentando prima di
tutto di scampare al continuo cannoneggiamento dei tedeschi che sparano
protetti dai fortilizi creati sui contrafforti che sono alle spalle
della famosa abbazia di Montecassino. Gli aerei degli Alleati cercano di
snidare i nemici sulle alture ma probabilmente stanno soltanto
seminando i monti e le colline di schegge di bombe enormi le quali
creano bellissimi effetti pirotecnici senza far desistere minimamente il
continuo cannoneggiamento del nemico.
Sì, la guerra qui non è
finita.
Ma vi basti questo per farvi una
idea sia pure approssimativa di che cosa succede da queste parti, quanto
alla scena. Quanto allo spirito, in noi è la stessa desolazione. Noi
italiani poi, con armi e mezzi scarsissimi, siamo i più derelitti. E non
è che i nostri alleati non ci considerino gran che soltanto per questo.
L’altra sera stavo in una baracca
improvvisata sotto dei poveri pioppi sbrindellati dalle bombe. Sarebbe
la baracca del comando degli italiani, ma di fatto qui si presentano a
ogni ora militari di ogni ordine e grado nostri connazionali spinti
anche dai più superficiali motivi. Sono tutti in un completo stato
confusionale e si riuniscono per il semplice istinto di stare con i
propri simili. Di disciplina non si può parlare. Forse è inevitabile che
ci si senta così, dopo il vuoto e il caos della disfatta, della fine di
un regime tragicomico e dell’occupazione del nostro povero paese da
parte degli ex alleati nazisti.
Sembra che gli ufficiali alleati
non si aspettino niente dagli italiani. I nostri militari di carriera
avrebbero pure delle idee, ma agli occhi del nostro stesso soldato
semplice sono ormai screditati. Del resto è da sempre che per il fante
italiano gli ufficiali sono degli inetti e degli infidi più pericolosi
del nemico.
Bene, ero nella baracca del
comando. Non so come, si cominciò a parlare dei motivi e delle
circostanze che avevano fatto sì che ci trovassimo lì strani combattenti
al fianco di eserciti alleati che non sembravano neanche accorgersi di
noi. Badate che uso il noi perché, pur essendo stato chiamato “a
parte”dal Signore (questa è la vocazione), non riesco a guardare la
situazione da fuori e, mi conoscete, mai dall’alto...
“Be’, io mi trovo qui per liberare
l’Africa,” aveva detto uno dalla faccia segnata dal vaiolo. Un omone
veneto che aveva sempre fame.
“Africa? che Africa?” gli chiese
perplesso un altro soldato.
“Quest’Africa qui; non stiamo in
Africa qui?”
Ci guardammo tutti noialtri in
silenzio. Al più giovane del gruppo scappava da ridere, ma smise subito
accorgendosi delle nostre facce serie.
“Senti qua, amico,” gli fece allora
un ciociaro che aveva attraversato le linee tedesche per stare con noi.
Un ebreo, scoprii dopo.”Vuoi un cazzotto?”…
Ma è inutile riportarvi il resto
della discussione nella baracca. Date le premesse sfociò in litigio, e
dalle parole si sarebbe passati alle botte, se non fossero accorsi gli
inglesi. Dopo, ci sentivamo tutti come scolari ripresi dal maestro.
Nella lotta, chiamiamola così, si
erano subito schierati i settentrionali contro i meridionali (pochi
questi qui, ma ce n’erano), gli ex fascisti contro tutti gli altri,
questi altri subito diventati due campi avversi: comunisti contro
cattolici. Non dovete però pensare che queste…non so come chiamarle:
categorie o squadre fossero facili da distinguere; e gli stessi
contendenti non sapevano bene quale fosse la bandiera sotto cui
cercavano riparo.
Per ricavare qualche insegnamento
da questo fatto, vi ricordo che il filosofo nostro contemporaneo più
importante (se ricordate, ve ne parlavo nelle nostre conversazioni sotto
l’olmo del convento) dice che la storia è il cammino dello spirito
dell’uomo verso la libertà. Le lotte, le guerre, in breve: i momenti
negativi di questa storia servono soltanto come gradini per la salita
inarrestabile della libertà, che alla fine stabilirà il suo regno in
questo mondo.
Io la penso un po’ diversamente e
non soltanto perché non devo ignorare gli insegnamenti della mia
religione, no, anche se assumo un punto di vista semplicemente umano
questo mio ragionamento dovrebbe aver senso. Tutte le bandiere servono
per dividersi in amici e nemici. Anche nel caso di bandiere sotto cui ci
si pone per perseguire il bene di tutti gli uomini, dopo i primi
slanci generosi, gli amanti di questo bene che si sono raggruppati sotto
di esse incarogniscono vedendo che gli altri non ci stanno,e quei loro
fini iniziali trasformano quasi subito in pretesti per commettere
violenze e soprusi contro quei loro simili che volevano aiutare,
soccorrere, redimere, o salvare magari per l’eternità. E come esempio
non c’è bisogno che vi ricordi che cosa la nostra chiesa ha fatto nei
secoli contro gli eretici, cose che non vi ho mai nascosto, né tentato
mai di giustificare o sminuire.
L’episodio che vi ho raccontato
perse ai miei occhi subito la sua importanza perché uscendo dalla tenda
a capo chino come gli altri andai a urtare contro la pancia del mio
“collega” francese, padre Blaise, venuto a cercarmi.
Mi pregò di seguirlo e per tutto il
tragitto che facemmo su una scassatissima macchinetta francese non
fiatò. Dopo un’oretta circa arrivammo in cima a un’altura che già
conoscevo, il monte Trocchia. Da lassù la nostra vista poteva spaziare
su tutto lo scenario d’inferno nel quale stavamo impantanati da più di
un mese e mezzo, occupati a uccidere e a farci uccidere. Mossi dalle
pennellate dei primi venti freddi si mescolavano e sovrapponevano nel
cielo tanti colori come in un quadro dipinto da un pittore pazzo: a
squarci di cielo luminosi si opponevano i neri sporchi delle nuvole
cariche di pioggia, il rosa di tagli di cielo in questi ammassi
minacciosi appariva sparso su pezzetti di profili montuosi dei lontani
Appennini. Questo nel cielo o lontano da noi, ma sotto di noi tutti
questi colori componevano con il loro riflesso un altro quadro nel lago
che si estendeva dalla città sino ai piedi dei monti e delle colline che
circondano la piana. Ci mettemmo a camminare a passi rapidi per
riscaldarci.
“Caro amico,” attaccò a un certo
punto Blaise, dopo aver emesso un profondo sospiro che vidi gonfiarsi
nell’aria fredda, “caro amico, sono venuto a salutarti…”
In breve, gli era arrivata una
lettera del cappellano generale con la quale il suo superiore lo
informava che veniva trasferito a Napoli. Il motivo: Blaise si era
voluto impicciare di decisioni puramente militari, come aveva scritto
un pezzo grosso del Quartiere generale alleato.
Io naturalmente gli chiesi quali
erano mai quelle decisioni puramente militari nelle quali lo pregavano
di non mettere il naso.
“Caro amico, più che di certe
decisioni dovremmo parlare di mancate decisioni, visto che non si vuole
indagare sulle violenze subite dalle vostre povere sorelle di Teano.”
Del resto, era contento di andare a
Napoli. Avrebbe visto che cosa poteva fare per la popolazione. C’era
molto da fare. In tutta la sua esperienza di guerra non aveva mai visto
gente vivere in condizioni di abbrutimento e di violenza simili neanche
nelle città africane.
“Be’, “ dissi,”per tentare una
qualche timida difesa dei nostri conterranei,” lì vive però una umanità
che nonostante tutto è civilissima…” e accennai a qualche cosetta sul
passato della città capitale di un regno, la gloriosa Repubblica
Partenopea, ecc. ma smisi subito vedendo il suo sguardo.
“Il passato non c’entra per
niente,” riprese. “Ma, tornando al motivo del trasferimento, sta sicuro
che mi occuperò di questo orribile crimine anche in seguito, anche da
Napoli. Voglio raccogliere un dossier di testimonianze e di ogni
informazione su quel fatto e scomodare un po’ di gente che naviga in
questa guerra a occhi chiusi.”
Capitolo 6
“Cara Dina,
‘stavolta ti pregherei - anzi, ti prego senz’altro, di non fare
leggere a nessun altro questa lettera. O almeno di non farlo finché io
non ti scriverò ancora. Sto infatti per prendere una fondamentale
decisione e fino a che non sarò sicuro che nella mia vita un’altra
persona potrà svolgere accanto a me una parte importante… una parte
esaltante, una parte che la mia speranza anticipa come il culmine della
felicità, ti prego di tenere segreto ciò che sto per dirti…”
L’inizio di questo capitolo con
l’attacco di un’altra lettera di padre Giacomo mi impone di precisare
quanto segue. La precedente lettera terminava come ho fedelmente
riportato, dopo aver tagliato soltanto i soliti saluti. Avevo soppesato
la possibilità di continuare con un’altra lettera di data anteriore –
una lettera che narra di come il frate riuscì a passare le linee e a
raggiungere l’abbazia. C’era in corso una strana tregua durante la quale
i tedeschi portarono a termine l’operazione del trasferimento della
biblioteca, dell’archivio storico e di alcune opere d’arte di
Montecassino a Roma, presso il Vaticano. Dell’operazione si servì con
grande strombazzamento la propaganda nazista per esaltare il popolo
tedesco come l’erede naturale e l’unico difensore della grande
tradizione culturale europea, l’unico che poteva fare da baluardo contro
le nuove orde barbariche, le quali non ponevano limiti all’uso delle
loro armi di distruzione, al punto che soltanto loro, i tedeschi,
avevano deciso di accorrere alle grida di aiuto che l’abate da tempo
rivolgeva invano a tutte le forze in campo.
Ritengo la lettera accantonata
molto più importante ed interessante per la mia ricerca, e probabilmente
anche sul piano storico generale che senza accorgermi sto invadendo
sempre di più – particolarità che mi darebbe qualche disorientamento se
la facessi mia in piena coscienza - ma la lettera che ho cominciato a
trascrivere all’inizio del capitolo apre di colpo una finestra sui
sentimenti di persone che si sono trovati come testimoni nel crogiolo,
nel calderone, nel vortice, chiamiamolo come vogliamo, di quel tremendo
fatto storico, e, in una certa misura, ci fanno toccare la dimensione
vera di ciò che successe allora alle persone nella piana del Liri e
sulla montagna sacra di Montecassino. Una dimensione che nessuna
ricostruzione impersonale e documentata dei migliori storiografi può
conferire mai alla Storia con la maiuscola.
Riprendo con la lettera sulla
quale il frate chiedeva il segreto.
“…Ho incontrato una persona, la maestra Emini. La chiamo anch’io
così, come la chiamavano i suoi alunni. La maestra Emini, proprio lei,
che fa la crocerossina qui, all’ospedale degli inglesi. Che non è, come
puoi immaginare, un ospedale normale, un ospedale come il “Fate Bene
Fratelli” a Benevento, per esempio. No, questo è fatto di tendoni e
qualche baracca di legno al riparo di terrapieni, di letti montati nei
cassoni di camion senza ruote.
Come vedi, sto perdendo tempo senza arrivare al dunque, senza
arrivare all’incontro con la maestrina torinese. Un colpo fu, per me
soltanto però, anche se, per dirti la verità, lì per lì pensai che fosse
solo un caso di somiglianza, quella faccia tranquilla, dall’espressione
distesa in quell’ inferno. Lei allora si tolse il berrettino bianco che
teneva fissato ai capelli con lo spillone, e io per poco non cadevo
svenuto vedendo sciogliersi quei suoi capelli, quei capelli che… Ma
salto, perché so che non sta bene decantare la bellezza di una ragazza
ad altre, sia pure altre ragazze che essendo state mie scolare, ed
essendo io un frate…
C’era davanti alla baracca dell’infermeria un soldato seduto per
terra. Suonava un flauto, o piuttosto uno zufolo che si era costruito da
solo. Così seduto in terra mi fece venire in mente i mendicanti che
venivano per chiedere l’elemosina alla festa di Sant’Antonio dagli altri
paesi. Uno in particolare, che arrivava su un carretto che la moglie, o
la figlia forse, tiravano per le stanghe. Era un mutilato della Grande
Guerra. “Ecco qui il suo gemello della Seconda,” pensai.
La Emini gli carezzò i capelli e mi portò in disparte.
Per me quello era un giorno particolare: Già dalla sera prima mi
avevano affidato una missione di cui avrei dovuto indossare il saio. Mi
preparassi subito e stessi pronto a partire senza preavviso. Perciò ero
vestito da frate, e lei che non mi aveva mai visto con l’abito, non mi
riconobbe subito.
Forse sentì un qualche imbarazzo a farsi vedere in atteggiamento
di confidenza con un monaco? Perché il fatto è che non accettò subito di
sedersi a mangiare insieme qualcosa al riparo di un carro distrutto. Poi
mi seguì senza esitazione su una vicina altura dalla quale potevamo
spaziare con lo sguardo sulle nostre trincee e, oltre, sui pantani
fangosi da cui spuntavano sagome di camion, carri, cannoni e altre
strane irriconoscibili cose affondate nell’acqua, sino alla scura
cortina del monte dell’abbazia, in controluce nell’ora del tramonto. Un
tramonto tra basse nuvole sporche di fumo e foschie di incerta origine
che pesavano su di noi impedendoci di tornare facilmente ai modi sciolti
di confidarci di una volta.
Arrivava a ondate, tra le pause dell’eterno bombardamento, la
musica del mutilato. Era quella insistente e ripetitiva di un famoso
brano che forse conoscete: quello di un musicista francese di cui non
ricordo ora il nome… quel brano che aumenta continuamente di intensità
perché trascina dentro come in un vortice sempre più strumenti, ma che
il soldato cercava di suggerire accelerando il ritmo e aumentando la
tonalità del suo unico strumento, con uno strano effetto di sfogo
rabbioso, di protesta contro il cielo e la terra.
Ascoltavamo la musica in silenzio e nemmeno ci guardavamo,
lasciando vagare i nostri occhi lontano. Poi lei mi chiese se avevo
notizie del paese. Le parlai di voi e della nostra corrispondenza. Lei
aveva conosciuto un soldato romano che aveva fatto il campo con gli
inglesi proprio al nostro paese. Da come me ne parlava capii che fossero
più che amici. Se ti dico che nella mia testa e nel mio cuore (se quest’organo
c’entra veramente qualcosa con i nostri sentimenti) fu come se
scoppiassero delle bombe, mi puoi credere. Mi vedevo, povero frate –
avevo rifatto la tonsura per il motivo di quella missione proprio quella
stessa mattina – a fianco di una bella ragazza che forse era innamorata
di uno più fortunato di me e destinata a creare qualcosa insieme a lui
quando sarebbe giunta la pace che non poteva tardare ancora molto, e già
da lì in quel posto d’inferno. Io, da una parte, sigillato nel Medioevo,
e lei dall’altra, vicina e irraggiungibile, che ritornata a casa, in
una città che…”
Sospendo questa trascrizione e
rimando a dopo aver di nuovo parlato con Dina, perché mi spieghi se quel
soldato di Roma fosse lo stesso che veniva a casa mia a far la corte a
mia sorella. Padre Giacomo era andato via prima che arrivassero gli
italiani sbandati al paese e non poteva sapere una cosa simile. E poi
quella missione. Una certa ipotesi che mi sono fatta mi impone però di
fare una vera ricerca ricorrendo a una documentazione esterna alla
corrispondenza. Si tratta dell’operazione a cui ho accennato all’inizio
di questo capitolo
Ma salto a quello
successivo.
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