Il
predominio degli Svevi in Italia fu contrassegnato da un lungo e
violento contrasto col papato, che, per quanto provocato soprattutto
da controversie di ordine politico piuttosto che da un’opposizione di
principio di natura teologica, raggiunse punte di asprezza e di
intolleranza dopo la promulgazione nel 1231 delle Costituzioni
Melfitane o Liber Augustalis di Federico II di Hohenstaufen, con la
proclamazione della concezione maiestatica e assolutistica del potere,
tutto raccolto nelle mani del sovrano, coadiuvato dalla Magna Curia
dei principali ufficiali del Regno. Inoltre le tergiversazioni e le
continue esitazioni dell’imperatore germanico a mantenere l’impegno di
mettersi a capo di una nuova crociata, insistentemente richiesta dal
papa, per liberare Gerusalemme e il santo sepolcro accrebbero la
diffidenza tra i due.
La scomunica pronunciata dal papa Gregorio IX contro il figlio di
Enrico VI e di Costanza d’Altavilla e non revocata per l’esito
ritenuto vergognoso della VI crociata (l’imperatore dietro pagamento
ottenne dal sultano d’Egitto Al-Kamil, col concordato di Giaffa, la
liberazione dei Luoghi Santi e l’incoronazione di re di Gerusalemme) e
la sua successiva deposizione nel concilio di Lione, convocato nel
1245 dal nuovo papa Innocenzo IV, rigidissimo sostenitore della
“plenitudo potestatis”, riuscirono solo a frenare e a ritardare il
progetto federiciano di estendere le strutture organizzative e il
governo del Regnum Siciliae a tutta l’Italia, compreso lo Stato della
Chiesa appena costituito, ma non a creare un pacifico modus vivendi
tra le due Autorità o ad instaurare una serena coesistenza tra il
potere regio e quello papale. Neppure la morte dell’imperatore svevo,
avvenuta improvvisamente il 13 dicembre 1250 nel castello di Ferentino
presso Lucera, riuscì a porre termine al conflitto con la Chiesa, che
fu ripreso dal figlio naturale di Federico, Manfredi, principe di
Taranto, nominato dal padre stesso a succedergli nel regno di Sicilia
qualora i due figli legittimi, Corrado e Enrico, fossero morti senza
discendenti. Le condizioni previste nel testamento di Federico si
verificarono nel 1254, favorendo i piani ambiziosi di Manfredi, che,
dopo aver assunto il baliato nell’Italia meridionale, si fece
incoronare re a Palermo usurpando, in violazione delle leggi della
successione, i diritti del piccolo Corradino, figlio di Corrado IV,
difesi del papa, preoccupato della politica indipendente di Manfredi.
Da parte guelfa, corse voce, ingrandita dall’odio partigiano e dalla
fantasia popolare che Manfredi, per ambizione di regnare e per sete
d’oro, avesse assassinato il padre, mentre era degente a letto colpito
da una grave dissenteria (“con un primaccio in sulla bocca l’affogò”),
avvelenato il fratello Corrado e tentato di far assassinare il nipote
Corradino. Forse anche Dante sembrò alludere a queste infamanti
accuse, quando fece confessare a Manfredi, incontrato sulla spiaggia
dell’Antipurgatorio nella schiera dei morti scomunicati, “Orribil
furon li peccati miei” (Purgatorio, c. III, v. 121).
Un non effimero legame d’affetto, rinsaldato dalla riconoscenza, unì
alla terra d’Irpinia il giovane re, che, abbandonata l’dea di essere
sepolto accanto al padre Federico II in un sarcofago di porfido rosso
nella cattedrale di Palermo, aveva intenzione di trovare una degna
sepoltura nella basilica di Montevergine in un sarcofago romano di
marmo strigilato, ornato con due teste leonine, rinvenuto sul monte
Partenio tra i resti dell’antico tempio di Cibele e posto nella
cappella absidale della Deposizione o Schiodazione di Gesù, fatta
erigere, secondo la tradizione, nel 1260 da lui stesso e così chiamata
da un Crocifisso, donato sempre da Manfredi, con le braccia schiodate
distese in basso sul sarcofago aperto in atto di accogliere,
confortare e perdonare il peccatore pentito. Il Crocifisso una
scultura lignea del XIII secolo di autore ignoto, raffigurante il
Cristo in atto di essere deposto dalla croce, affiancato
dall’Addolorata e dalla Maddalena (le due statue sono andata distrutte
o disperse) fu restaurato nel 1950 in occasione della mostra “Sculture
lignee nella Campania”.
Non sembra avere un valido fondamento storico che Manfredi, durante i
sui viaggi in Irpinia, abbia visitato il Sacro Monte e che abbia
scelto ivi la sua tomba, se non la contemporaneità della costruzione
di quella cappella col suo governo; tuttavia la tradizione, che si è
mantenuta costante per tanti secoli, non può essere ritenuta
assolutamente falsa o del tutto priva di attendibilità in quanto i re
di Sicilia, normanni e svevi, per motivi religiosi e politici, tennero
sotto la loro protezione sovrana la basilica di Montevergine,
concedendole privilegi, esenzioni e donazioni. In un privilegio del
marzo 1195 Enrico VI passò nelle mani degli abati i poteri baronali
sul territorio di Mercogliano prendendo il monastero sotto la sua
protezione, che
venne confermata ed ampliata con la concessione di altri beni feudali
dal figlio Federico II con un diploma del 1220. Non è da escludere,
quindi, che l’ultimo svevo sul trono della Sicilia abbia seguito
l’esempio dei suoi predecessori, anche se dai documenti esistenti
nell’Archivio di Montevergine nulla risulta che valga ad avvalorare la
tradizione. Bisogna però dire che lo stesso Carlo I d’Angiò diede
credito a quanto si raccontava, tanto che, asceso a Montevergine per
rendere grazie della vittoria conseguita a Benevento, donò la cappella
del re vinto a uno dei suoi fedeli, il maresciallo Giovanni della
Lagonessa, che vi fu sepolto nel 1287.
Soltanto nel tardo Seicento si cominciò a trovare traccia sulla
cappella fatta erigere da Manfredi, ma, come aggiunse l’abate don
Amato Mastrullo, importante scrittore verginiano di Castelbaronia, nel
suo “Montevergine sacro”, il re “non vi giunse ad haver sepoltura
ecclesiastica per essere stato scomunicato da tre Pontefici et
ammazzato in Benevento”. Anche l’abate don Matteo Jacuzio e
nell’Ottocento l’avvocato Giovanni Zigarelli prestarono fede alla
tradizione riportando nei loro scritti la notizia della tomba del
sovrano svevo.
E nei riguardi del figlio di Federico II e di Bianca Lancia di
Monferrato- che fu legittimato in extremis perché il padre offrì
l’anello nuziale a Bianca languente sul letto di morte per un male
inguaribile- la gente irpina corrispose altrettanta simpatia,
culminante con le manifestazioni di entusiasmo popolare, che Atripalda
gli tributò il 29 ottobre 1254 durante una sosta della sua precipitosa
e ardita fuga verso la Puglia.
Pur essendo solo un piccolo frammento di una vita breve ma
avventurosa, l’avvenimento, narrato da un testimone oculare, lo
storico Niccolò Jamsilla, si inserisce nel più ampio contesto
dell’aspra lotta per la conquista della corona di Sicilia che il
“nepote di Costanza imperadrice”, capo del partito ghibellino in
Italia, fedele alla politica del padre, aveva ripreso contro il
papato; ma dopo la sua scomunica tentava di seguire la via della
mediazione concordando con papa Innocenzo IV un incontro
chiarificatore a Capua per accettarne le condizioni. Un imprevisto
incidente venne, però, a compromettere il tentativo di pace facendo
precipitare la situazione: in uno scontro armato, non provocato né
voluto da Manfredi, cadeva ucciso il barone Borrello d’Anglano, che,
traditi gli Svevi, si era schierato col papa, ricevendo in cambio di
questa adesione il possesso del contado di Lesina, destinato per
disposizione testamentaria di Federico II al figlio. Incolpato della
morte del traditore, Manfredi, per sottrarsi all’ira del pontefice e
alle vendette dei nemici, si ritirò ad Acerra, ospite del cognato, il
conte Tommaso d’Aquino, marito di Margherita di Svevia, figlia
naturale di Federico II, considerato il suo principale sostegno. Qui
avrebbe atteso il marchese Bertoldo di Hohemburg, il quale, subdolo e
falso, cercava di rovinare di più la posizione di Manfredi con segrete
trattative col papa. Ma, non sentendosi ancora al sicuro, seguendo il
consiglio di Galvano Lancia, preferì nel cuore della notte
allontanarsi anche da Acerra e affrontare un lungo viaggio per
rifugiarsi a Lucera, una città fortificata, dove poteva contare su un
esercito fedelissimo di 20.000 saraceni, che fu uno dei più efficaci
strumenti della potenza sveva.
Ammantato da un alone di leggenda, l’episodio fu ingrandito e
magnificato oltre il suo valore reale, fino ad essere iperbolicamente
comparato da qualcuno all’egira di Maometto, dopo l’esaltazione nel
Purgatorio dantesco della morte eroica di Manfredi, idealizzato come
un archetipo di cortesia, coraggio, cultura e, dopo il supremo
olocausto, anche di fede. Ciò è da attribuire soprattutto a Jamsilla,
il cui lineamento biografico è assai incerto, anche se qualche
studioso come il Karts ha azzardato l’ipotesi che possa essere
identificato col segretario di Manfredi, Goffredo di Cosenza. Il
cronista, autore dell’”Historia de rebus gestis Frederici II
imperatoris eiusque filiorum Conradi et Manfredi Apuliae et Siciliae
regum” (contenuta con la traduzione di S. Gatti nella silloge di G.
del Re “Cronisti e scrittori sincroni napoletani”), rievocò
l’affannosa cavalcata di 200 chilometri con l’emotiva partecipazione a
un avvenimento personalmente vissuto. Successivamente molti altri
autori hanno fatto riferimento nelle loro cronache all’avvenimento,
colorendo ancora di più la descrizione, già abbastanza vivace,
arricchendola nel tempo di luoghi e di fatti e creando uno scarto tra
la realtà storica e il riporto storiografico, dovuto all’accettazione
acritica di ipotesi poco fondate o alla contaminazione di fonti
diverse.
Tuttavia, anche senza la connotazione caratteristica e la dimensione
straordinaria dell’epos, non fu del tutto agevole giungere da Acerra a
Lucera, inerpicandosi durante la notte per gioghi dirupati e per aspre
erte e seguendo un percorso accidentato, ma sicuro per scongiurare la
rappresaglia delle truppe pontificie e per evitare di passare per
luoghi ostili, come il castello di Monteforte o la stessa città di
Avellino, posta dal 1251 sotto la giurisdizione del rivale, il
marchese Hohemburg.
Neppure Mercogliano, contraria alla parte sveva, pur senza trascendere
ad atti di aperta ostilità, spianò la fuga del piccolo drappello,
guidato dai fratelli Corrado e Marino Capece, signori di Atripalda,
nobili napoletani valorosi e fedeli, feudatari di Baiano e del
castello di Litto, che conoscevano bene la natura dei luoghi e
l’itinerario più adatto. Trovate sbarrate le porte del poderoso
castello, i fuggitivi attraverso un angusto sentiero rasente un dirupo
pervennero verso le 11 a.m. ad Atripalda.
Invece Scipione Bella Bona, il più antico storico irpino, avanzando
un’ipotesi poco credibile, ma seguita da altri studiosi come S.Pionati,
G. Valagara e A.M. Jannacchini, fece percorrere un altro itinerario a
Manfredi, il quale per sfuggire alle truppe nemiche stanziate a
Monteforte, “pigliò partito drizzar il cammino per Montevergine”
(“Ragguagli della città di Avellino”), dove, in cambio dello scampato
pericolo, volle che fosse eretta, come una sorta di “ex voto”, la sua
tomba.
Al passaggio del corteo, preannunziato dal suono solenne delle campane
e dalle grida dei contadini, fece ala il popolo plaudente, desideroso
di ammirare il re, “biondo, bello e di gentile aspetto”, sul cui volto
corrucciato, ma non avvilito trasparivano l’imperioso cipiglio e la
mai sopita fierezza. In modo opposto, a seconda della loro
appartenenza alla parte guelfa o a quella ghibellina, lo giudicarono i
cronisti del tempo, che mostrarono sempre un certo rispetto e una
qualche ammirazione. Anche il fiorentino guelfo Giovanni Villani nella
sua Cronaca (VI,46) non tacque le sue qualità descrivendolo così: “Fu
bello nel corpo e, come il padre e più, dissoluto in ogni lussuria;
sonatore e cantatore era;…molto fu largo e cortese e di buon dire,
sicché egli era molto amato e grazioso; ma tutta la sua vita fu
epicurea, non curando quasi né Iddio né Santi”.
E il castello longobardo di Truppualdo, illuminato a festa, offrì in
onore dell’illustre personaggio, prode combattente e raffinato uomo di
lettere, un sontuoso banchetto, cui parteciparono molti esponenti
della nobiltà: Riccardo Filangieri, conte di Marsico, il conte di
Sanseverino, il conte di Caserta.
E durante il lauto banchetto si compì il primo atto di galanteria in
Italia. Infatti, contrariamente a quanto prescriveva il cerimoniale
delle corti, che obbligava i sovrani a sedere soli senza alcun
commensale che non fosse di stirpe reale, Manfredi, spirito sensibile
all’amore e alla bellezza muliebre, volendo ricambiare l’ospitale
accoglienza ricevuta dai fratelli Capece, non disdegnò di invitare al
suo tavolo le bellissime spose dei due cavalieri atripaldesi perché
pranzassero con lui. Inutili furono le resistenze delle due nobildonne
di non essere all’altezza di quell’altissimo onore mai concesso prima
di allora; il re svevo, per vincere la loro pudica ritrosia, come
scrisse l’illustre giurista e uomo politico Pasquale Stanislao Mancini
in una sua novella giovanile, quasi sconosciuta, dal titolo “Re
Manfredi ad Atripalda, contenuta nell’”Album di Fabri”, affermò “I
costumi dei popoli sono quelli dei loro re: noi altri italiani in
faccia ai popoli del settentrione abbiamo il torto di sconoscere
tuttavia le massime della galanteria e la superiorità del bel sesso, e
il castello di Atripalda serberà memoria del primo atto di galanteria
in Italia e sarà per le belle italiane qualche cosa di sacro”. E
concluse :”Si esaltano, non si abbassano i Principi che rendono
omaggio alle dame. Dopo tante tenebre non potrei trovare maggiore luce
di quella che tramandano i vostri begli occhi “.
Emerge chiara in queste parole la concezione della donna vagheggiata
nella siciliana corte federiciana ed esemplata sulla lirica
trobadorica.
Il comportamento liberale e, per così dire, anticonformistico di
Manfredi, da considerare quasi un sostenitore “ante litteram”
dell’emancipazione femminile, fu confermato dallo storico svizzero
Sismonde de Sismondi, che nella “Storia delle Repubbliche italiane del
Medioevo” osservò: “C’est la première fois que nous trouvons dans les
historiens contemporains les maximes chèvaleresque de la galanterie,
que peut- être avaient été admis plus tard in Italie dans le Nord”.
Dopo la breve, ma intensa sosta ad Atripalda, riprese il suo viaggio
per Nusco, nel cui castello, appartenente al cognato, passò la notte
e, dopo aver aggirato con somma cautela Guardia dei Lombardi, terra
che faceva parte della contea di Andria, di dominio dell’infido
marchese Bertoldo, pernottò tra grandi dimostrazioni di affetto e di
gioia degli abitanti a Bisaccia, ultima tappa in territorio irpino,
per poi ripartire per Lucera, dove, atteso dai soldati saraceni,
giunse “il dì dei morti”. Ma le scene di giubilo dei cittadini
pugliesi non riuscirono a cancellare il ricordo della cortese
ospitalità di Atripalda dalla mente di Manfredi, che promise che vi
sarebbe ritornato col titolo di re di tutta l’Italia; ma fu un cattivo
profeta perché la fortuna volgeva ormai al tramonto e i suoi sogni
furono infranti il 26 febbraio 1266 da Carlo d’Angiò, chiamato nella
penisola dal papa Clemente IV, “in co del ponte presso a Benevento”.
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