RICORDANDO GIUSEPPE E PIETRO CRISTINO NELLA TERRA DEL SILENZIO
I problemi sono tanti. Da locali o nazionali che erano, sono divenuti di portata planetaria. Non sarà di certo la logica delle lobby, delle multinazionali e della propensione al consumismo a prospettare le soluzioni più eque o più giuste per la nostra società.
Dell’Irpinia, assai arretrata e depressa d’inizio secolo, poco o nulla permane nella memoria collettiva. Guido Dorso, nel 1915, ne faceva un quadro tutt’altro che esaltante. Le lotte politiche provinciali, caratterizzate da intimidazioni e sopraffazioni, trovavano fertile terreno nelle condizioni di servilismo diffuso. L’Irpinia era già allora regno dell’affarismo e del trasformismo, e l’arte della mediazione e della demagogia serviva soprattutto all’interesse generale della borghesia. A ben vedere, però, nel secondo dopoguerra il quadro generale provinciale non è parso cambiato di molto rispetto al periodo tra le due guerre. Il potere locale era gestito con strumenti conservatori e antiprogressisti. I nobili erano ormai stati soppiantati dai professionisti – medici, avvocati, ingegneri ecc. – e dai burocrati che andavano costituendo un nuovo ceto d’arrampicatori sociali fortemente politicizzato. Il censimento del 1921 rilevava l’arretratezza economica irpina: il 79,20% della popolazione attiva era impegnata nell’agricoltura; solo il 14% lavorava nell’industria e nei trasporti; appena dieci erano le imprese con più di cinquanta addetti. La polverizzazione delle imprese caratterizzava tutti i settori economici provinciali. I lavoratori prestavano la propria opera in condizioni di sfruttamento, con strumenti antiquati, salari bassissimi e nella pressoché generale inosservanza delle norme previdenziali e antinfortunistiche. Il censimento del 1931 vedeva scendere l’occupazione nel settore agricolo al 71%, ma permaneva l’estrema arretratezza delle tecniche produttive in agricoltura. Oltre alla crescita degli addetti nei settori dell’industria e del commercio, si registrava il raddoppiamento della popolazione scolastica (24.301 alunni), rispetto al 1921, anche se non poteva essere cancellato l’analfabetismo. L’emigrazione di massa, con destinazione transoceanica, s’interrompeva durante il ventennio fascista, ma sarebbe ripresa in modo massiccio negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, privilegiando i paesi europei. Questo, in breve sintesi, lo scenario in cui Pietro Cristino (1882 – 1962), farmacista montecalvese e padre di Giuseppe, prima socialriformista e poi socialista dal 1924, dopo l’avvento del fascismo nel 1922, fece le sue scelte politiche ed operò in opposizione al regime. Sottoposto a restrizioni severe delle libertà personali, a seguito della “ammonizione” della Questura, motivata dalla sua accertata attività sovversiva, egli sopportò con dignità ogni vessazione, compreso un breve arresto cautelare, in occasione delle nozze di S.A.R. il Principe Ereditario, celebrate il 12 gennaio 1930. Intransigente oppositore del regime, divenne soprattutto un punto di riferimento morale per gli antifascisti montecalvesi e quelli dei comuni vicini, perché col tempo ogni forma d’azione politica gli era impedita con ispezioni e controlli rigorosi di polizia. Sarebbe stato il primo sindaco democraticamente eletto nel 1946, in un comune, Montecalvo Irpino, dove mai si era sopito lo spirito democratico e antifascista. Gli ultimi anni della sua vita li avrebbe trascorsi seduto e silenzioso su una sedia, a causa di una paralisi che l’aveva colpito.
Il figlio Giuseppe assistette alle vicende paterne maturando una spontanea e autonoma formazione politica, caratterizzata da una precoce opposizione alla dittatura fascista, non rivelata ad alcuno. A Napoli, dove per motivi di studio s’era trasferito con la madre e i fratelli, nel 1938 decise di espatriare per partecipare alla guerra civile spagnola. A Parigi, dov’era giunto con pochi risparmi, grazie ad un finto viaggio turistico, entrò in contatto con altri antifascisti e si arruolò nelle Brigate Internazionali. Entrato clandestinamente in Spagna, combatté nella Brigata Garibaldi in difesa della Repubblica spagnola. Fatto prigioniero dai franchisti, fu internato in un campo di concentramento dove morì, presso Burgos, il 20 agosto 1941, stroncato da un’epidemia di tifo. Comunque, se fosse sopravvissuto, l’avrebbero consegnato allo Stato italiano, il che sarebbe equivalso probabilmente alla sua condanna a morte, giacché nel 1939 erano avvenute fucilazioni, per ordine dello stesso Mussolini, di antifascisti italiani catturati in Spagna. Ad onor di cronaca va riferito che da Montecalvo era partito per la Spagna anche qualche volontario, arruolato dal regime, per combattere a fianco delle falangi franchiste. Relativamente ad uno di questi volontari, si raccontava che sua moglie, con le rimesse ricevute dal marito combattente in Spagna, si era comprato un appezzamento di terra intestandolo al proprio nome (Lu marìtu ha gghhjut’a pparà li ppaddròttil’a la Spagna e la mugliére, cu la pava ca iddru l’ave mmannàtu, s’av’accattàtu la terr’a ppiéttu suju!). Era di conforto per Pietro Cristino, sopravvissuto al figlio per ventuno anni, il sapere che Giuseppe si era sacrificato per il suo ideale di libertà. Padre e figlio, dunque, erano accomunati nei loro ideali di democrazia e la loro storia andrebbe fatta conoscere ai giovani. Però, quasi fossero dei personaggi scomodi o ingombranti, Montecalvo ha scelto il silenzio. Ma un paese che si scorda dei figli migliori, a prescindere dal colore politico d’appartenenza, è un paese senza storia, che non possiede alcunché da insegnare ai giovani e tramandare ai posteri.
(Testo inedito, scritto a Zell (TN), il 10 dic. 1991, per ricordare il cinquantenario della morte di Giuseppe Cristino). Angelo Siciliano
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