Fatti e
antefatti.
È certamente
meritorio che, dopo oltre quaranta anni di totale abbandono, le
sinergie pubbliche abbiano deciso di allentare i cordoni della borsa,
per elargire i fondi necessari e consentire di salvare, consolidare e
ripristinare quanto rimane del castello di Montecalvo Irpino, su cui
era il Palazzo ducale, ultima residenza dei duchi Pignatelli. Ciò che
è rimasto di questa struttura medievale e dei rimaneggiamenti
successivi, probabilmente lo si deve a chi progettò i muri inclinati a
mo’ di contrafforte, contro cui nemici umani e naturali, come
terremoti ed agenti atmosferici, si sono accaniti per secoli, senza
averne ragione. Un po’ come è successo per l’Ospedale di Santa
Caterina d’Alessandria, in Via Lungara Fossi, che resiste ostinatamente
alle ingiurie del tempo, anche se quando piove molto qualche sasso si
stacca e cade giù. Del castello ci sono pervenuti i locali
seminterrati, mentre degli edifici superiori restano qualche brandello
di muro diroccato e un’ampia spianata, fruibile come belvedere sugli
ampi panorami circostanti, o per estemporanei spettacoli estivi. Nel
progetto di recupero sono previsti la ricostruzione degli edifici
superiori, dov’era il Palazzo ducale, e del campanile di Santa Maria,
di cui rimane a terra una campana. |
Palazzo ducale |
Nulla si dice dei tunnel che,
secondo antichi racconti, partivano dagli scantinati del castello come
potenziali vie di fuga, in caso d’attacco da parte del nemico. Antonio Garofaniello, Caròfinu, verso metà Novecento, raccontava che i
tunnel dovevano essere tre: il primo portava verso il castello di
Corsano, il secondo verso la Pescara e il terzo, passando per la
cantina della famiglia Pirrotti e scendendo per la contrada della
fontana della Monica, per poi risalire, sboccava nei pressi della
fontana della Terra. Diceva pure che questo terzo tunnel era stato
aperto e poi ostruito in Via Lungara Fossi, proprio in corrispondenza
della cantina Pirrotti, con la costruzione del muro di contenimento
del terrapieno retrostante il palazzo dell’Ente Rosa Cristino. Se,
dopo il ripristino della Collegiata di Santa Maria e della chiesa
rurale di San Nicola a Corsano, si vanno elargendo fondi per il
recupero del castello, delle case e dei palazzi del centro storico, di
cui era stata deliberatamente decretata la morte dopo il terremoto del
1962, per il resto, come una volta dicevano i giocatori incalliti, il
piatto piange.
E piange per il Trappeto,
per il Castello di Corsano, per la chiesa di San Gaetano Thiene,
per il Casino di Stiscia e per ciò che potrebbe diventare il “Parco
Architettonico Rurale della Malvizza”. Forse non è già troppo tardi,
per il loro recupero, come alcuni pessimisticamente ritengono. E la
campana non è ancora suonata a morto. Tanto c’è da fare, si può fare,
si deve fare! Certo, ci vuole coraggio e soprattutto un’inversione di
rotta, rispetto alle politiche dilatorie ed accidiose del passato. Ma
quando si è fatto poco o nulla per il recupero del settore edilizio
storico, che potrebbe avere una ricaduta non trascurabile sia per
l’immagine che per la realtà economica locale, se suffragata da altre
iniziative, cominciare a riempire un’assenza di scelte politiche, non
è mai tardi. Non è mai troppo tardi! Qualcosa si deve pur fare per
Montecalvo, sia come paese che come paesaggio rurale. Non si può
pensare che siano gli altri a fare. Quando quegli altri, in realtà non
esistono, o si astengono dall’operare. Insomma, bisognerebbe darsi le
mani di torno, o meglio cominciare a sporcarsi le mani. Certo, in un
ambiente così, la burocrazia e la gente non sono d’aiuto. Perché la
burocrazia privilegia lo status quo, si dimostra
ostruzionistica, mette i paletti tra le ruote. La gente non dà
importanza a queste cose. Ma compito dei politici, se la politica è
una missione, o almeno una funzione di servizio, come dovrebbe sempre
essere, è “fare le cose”. E farle bene. Sicuramente applicando le
leggi, non facendosi imbrigliare dalla filosofia che è meglio non
fare, per non dover sfidare poi polemiche pretestuose e avvelenarsi
l’esistenza. E in ogni caso è sempre meglio essere ricordati per aver
fatto qualcosa di utile per la gente e le generazioni future, anziché
come nullafacenti che ci si è limitati a gestire l’ordinaria
amministrazione. E compito della politica è stimolare i privati
fornendogli gli input giusti, affinché si avviino iniziative concrete
e proposte progettuali. E quindi anche i privati dovrebbero
svegliarsi, pretendere che certi interventi siano fatti, e cominciare
a fare in proprio ciò che è di propria competenza, se si desidera che
i figli non siano sempre costretti ad emigrare. E anche i giovani
devono attivarsi, essere intraprendenti, cogliere le nuove
opportunità, organizzarsi con cooperative sul territorio, per le
attività agroturistiche e la valorizzazione dei prodotti tipici,
guardando a quanto di buono si va facendo nel resto dell’Irpina e in
altre regioni. E non sperare di ricevere sempre dagli altri “l’uóv’ammunnàt’e
bbuónu”, le cose già belle e fatte. Io, che non risiedo a
Montecalvo da lungo tempo, raccolgo spesso echi di ciò che si va
facendo in altre parti dell’Irpinia, per recuperare, ripristinare,
rinnovare, rivitalizzare, conservare e tramandare. In questo modo si
creano anche le premesse per produrre ricchezza. E si sa quale
importanza vitale ha per i giovani la possibilità di avere un
reddito certo sul proprio territorio. Di alcuni paesi conservo
ricordi personali. |
Casa in Via Angelo Cammisa - Trappeto
Trappeto |
Nel 1983 accompagnavo
mia moglie a Sant’Angelo dei Lombardi, dov’era stata nominata
commissario d’esami per ragionieri, e ne approfittavo per dipingere
sul posto la cattedrale puntellata da un’infinità di travi. In seguito
essa sarebbe stata splendidamente recuperata e restituita al culto
nella sua integrità ripristinata. Mentre la disegnavo, mi si
affacciava un pensiero malizioso: a Montecalvo, una chiesa così
malconcia, non ci avrebbero pensato su due volte a cancellarla per
sempre. Era anche evidente quanto, per la gente e gli amministratori
di quel comune, dopo il terremoto del 1980, fosse prioritario
ricostruire anche il centro storico com’era prima del sisma. Osservavo
muratori al lavoro fasciare con grate d’acciaio e gettate di cemento i
muri risparmiati. Ricostruivano così le abitazioni. Più o meno
com’erano prima del disastro.
Ariano Irpino, dopo i
terremoti, ha sempre dato la priorità al recupero degli edifici
storici e poi anche alle case della parte vecchia della città.
Casalbore si è
rifatto il look ed è piacevole visitarne il centro storico.
In tanti altri comuni
dell’Irpinia s’istituiscono musei, si salvano casali, taverne e
masserie. S’inventano parchi naturali. S’incentivano le imprese.
A Montecalvo sono
successe cose incredibili nei decenni passati. E avrebbero dovuto
indignare la gente e far levare voci di protesta da parte dei
cittadini istruiti e colti, che pure non mancavano. E invece, il
silenzio! Perché alla gente bastava sistemare le proprie cose, la
propria casetta, e quel patrimonio di edifici, depositario della
storia comune e della memoria collettiva, poteva essere anche spianato
e fatto rotolare nella discarica del Fosso Palumbo. Come se la cosa
non riguardasse nessuno. Insomma, si è lasciato fare in ossequio ad
una regola malsana: prima di tutto l’interesse particolare in luogo di
quello generale. Colposamente si è cancellata l’identità del paese,
disseminando la lunga e diseguale collina di disordinati e anonimi
nuclei abitativi, perché ha imperato l’incuria collettiva. Si è
proceduto, come se niente fosse, ad abbattere alcuni edifici,
fondamentali per l’immagine, il decoro e la storia del paese, che i
terremoti avevano in ogni modo risparmiato. Si abbattevano il
campanile della Collegiata di Santa Maria, il seicentesco convento dei
francescani, con l’altare barocco e il soffitto affrescato, mezzo
Palazzo Peluso, mezzo casino di Stiscia alla Marinella, il soffitto
della chiesa di San Bartolomeo con gli affreschi di Nicola Auciello.
Mi risuonano ancora nelle orecchie i lamenti di Giovanni, figlio di
Nicola, che fu pittore e fotografo, di cui è andato perduto anche il
patrimonio di foto e lastre fotografiche. Addirittura si svuotava la
Collegiata di Santa Maria. Se ne disperdeva l’arredo, di valore non
trascurabile, e si aveva l’impudenza di farla sconsacrare, per
renderla vuoto sarcofago di memoria. Perché nella fantasia illuminata
e lungimirante di qualcuno, quello era il posto ideale per collocarvi
la biblioteca comunale. Insomma i buoni propositi, se non si combinano
con un interesse personale tangibile, non si mettono in pratica, o si
rinviano sine die. Quelli cattivi, invece, non si aspetta tempo
ad attuarli. In questo paese, si potrebbe dire che nel Novecento,
terremoti compresi, è passato “Attila”, nelle vesti di spianatore
d’edifici e “resettatore” di memorie. Molto era stato distrutto dopo
il terremoto del 1930. Benedetto l’arrivo di nu frustiéru, il
parroco don Teodoro Rapuano, che ha suonato la sveglia e che, tra
infinite difficoltà, sta facendo in modo che in questo paese vi sia
davvero un’inversione di rotta, rispetto a quanto finora si è fatto.
Anzi, non si è fatto! Comunque tanto si potrebbe fare, si diceva.
Bisognerebbe rimboccarsi le maniche, e avere il coraggio di sfidare
l’inevitabile incomprensione della gente e la burocrazia. E tanto
potrebbero fare i tecnici del paese, i liberi professionisti
dell’edilizia, che non hanno neppure un’associazione professionale
locale, elaborando progetti di recupero edilizio e sottoponendoli
all’amministrazione pubblica, che si attivi affinché siano approvati e
finanziati.
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Angelo Siciliano-
Cattedrale di S.Angelo dei Lombardi vista
dal castello- Pastello-1983
Angelo Siciliano-
Cattedrale di S.Angelo dei Lombardi
facciata - Pastello-1983
Palazzo Peluso
Via Lungara Fossi -
Resti dell'ospedale di S.Caterina
|
Il
Trappeto.
Abbandonato a se
stesso dal 1962, il Trappeto sta sgarrupànnu da tutte le parti.
Ogni stagione piovosa sfonda altri tetti, provoca nuovi crolli,
cancella altre case. Altre storie di famiglie e ricordi di vita
vissuta spariscono per sempre. E circolano voci che si provvede a
smontare i portali e li si fa sparire. Forse, furti su commissione.
Certamente queste case, le cui perizie furono utilizzate per
ricostruire altrove i nuovi alloggi, non sono “I Sassi di Matera”,
dichiarati dall’Unesco “Patrimonio dell’umanità”. Anche lì la gente
era stata trasferita altrove, in nuovi alloggi popolari costruiti
appositamente. Da qualche anno, con gli incentivi del comune e dei
fondi sociali europei, la gente sta ritornando. Ripristina le vecchie
case e riprende ad abitarle. Lì non si è atteso che tutti i tetti
collassassero. E vi si organizzano mostre d’arte internazionali, e
arrivano i turisti. Matera non è al Nord. È Sud più profondo del
nostro. E devo aggiungere che la Lucania l’ho sempre ammirata. E l’ho
percepita un po’ come terra mia, per un fatto culturale, per
l’orgoglio della sua gente, che attraverso i propri rappresentanti ha
saputo far sentire spesso la sua voce, dando visibilità ai suoi
problemi. Lì ritrovavo ciò che da noi si distruggeva, come se fosse
passato di moda. Come si getta un abito vecchio. Idealmente lì mi
rifugiavo, quando si faceva pressante la nostalgia, perché la storia
di quei luoghi, capace talvolta di attirare l’attenzione nazionale e
internazionale, mi pareva che “vendicasse” un po’ anche la nostra, per
molti aspetti simile a quella lucana, ma sempre silenziosa,
ossequiosa, capace solo di andare a braccetto o a rimorchio di
politiche locali indolenti e clientelari, fini a se stesse. Dunque, il
Trappeto. Il nostro secolare quartiere trogloditico, simbolo di vita
simbiotica tra umani e animali, si sta accartocciando su se stesso. E
si pensa che è colpa delle tante grotte scavate nel tufo, che ne
minano la stabilità, e poi dell’acqua piovana che s’infiltra e permea
il tutto, perché non è più canalizzata. Come se l’azione umana, o la
sua latitanza, non c’entrassero. Ogni casa aveva o ha almeno una
grotta. E l’interrogativo è se qualcuno che può, o che deve, si sia
mai posto il problema delle conseguenze di quest’abbandono e dei
crolli conseguenti. E se gli è passato mai per capo che i crolli
potrebbero interessare, in un futuro non lontano, anche tutte le case
di Corso Umberto I, come sta già avvenendo, e la stessa via, e quella
parte meridionale del colle su cui poggia il Castello. Volere
ipotizzare una conservazione complessiva del Trappeto, nella
situazione disastrata in cui si trova, è ragionevolmente impensabile.
Ma per la sua parte occidentale, che da Via Dietro Carmine scende e
prosegue per Via Angelo Cammisa, fino al fontanino, che ora non butta
più acqua, sulle abitazioni abbandonate, ancora in discreto stato, si
farebbe in tempo ad intervenire. Si deve procedere innanzitutto a
rifare i tetti, a controllare i muri portanti e fare la manutenzione
periodica per lo scorrimento delle acque pluviali.Si concentrano in
questo posto alcune case tipiche, con scale esterne, poggioletti e
logge non più esistenti nel resto del paese. Proprio in questa parte
del Trappeto, nel 1988, ambientavo la scena d’un mio disegno per
l’illustrazione de “Lo zio d’America”. I murales, che
sono lungo il muro del giardino del convento, furono una costola di
questo mio libro. Chi adopera ancora gli scantinati di queste case,
racconta che di domenica qui arriva diversa gente a guardare e a
curiosare. Questa è già una premessa positiva. Il resto è delegato a
chi può e deve fare i passi giusti, per salvare quantomeno il
salvabile, prima che sia veramente troppo tardi.
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"Barracca"- porta della cinta muraria
meridionale di Montecalvo
Interno
di una casa al trappeto
Palazzo De Cillis
- in via Longara Fossi |
La
chiesa di San Gaetano Thiene.
Nell’agosto 2000, in occasione della conferenza “I Giubilei e
Montecalvo”, organizzata dal Comune, e a cui partecipavo come
relatore, facevo la conoscenza di Lucia Portoghesi, anche lei
relatrice, archeologa e fondatrice del museo di Altavilla Irpina,
nonché esperta di tessuti antichi. Qualche giorno dopo ero in visita
al museo di Altavilla, bene allestito e ricco di importanti reperti.
Lei, che mi faceva da guida, mi confidava che probabilmente le sarebbe
stato affidato l’incarico di aprire la cripta della chiesa di San
Gaetano Thiene a Montecalvo, edificata nel 1653 dal barone Battimelli
e poi lasciata in eredità alla famiglia Bozzuti, ramo materno di San
Pompilio Maria Pirrotti, unico santo dell’Irpinia. Gli obiettivi
sarebbero stati il recupero, lo studio e la valorizzazione dei reperti
in essa contenuti, con le salme dei componenti della famiglia Bozzuti
che ancora vi sono sepolte. Chiedeva la mia disponibilità a
collaborare con lei in quell’impresa, per me inusuale e affascinante.
Naturalmente acconsentivo. Ma quel progetto sarebbe finito a
ppaglia d’uóriju, come si diceva una volta in paese, cioè in un
nulla di fatto. Data dal 1962 l’abbandono di questa chiesa. Per anni
ne è stato fatto scempio, attraverso un uso dissacrante e vergognoso.
Si è consentito di adoperarla come stalla, dimora d’asini e capre,
d’imbrattarla di sterco. E i conigli scavavano tane sotto l’altare. Di
essa restano ancora in piedi i muri perimetrali. E la cripta è sempre
lì, probabilmente intatta. Fino a quando non crolla il pavimento. Mi
capitava di leggere recentemente che essa non rientra tra le 378
chiese, per le quali la regione Campania ha stanziato fondi per la
manutenzione ordinaria e straordinaria. Trovo personalmente questa
cosa assai grave, perché, trattandosi di un luogo rilevante
storicamente per il paese, chi doveva muoversi, per accedere ai fondi
regionali, ha omesso di farlo. |
Chiesa di S.Gaetano
da Thiene
Interno chiesa san
Gaetano |
Strutture disastrate ma recuperabili.
Curiosando per le
campagne di Montecalvo, dove i ripetuti terremoti e l’incuria umana
hanno avuto un evidente effetto sinergico negativo e distruttivo, si
scopre con sorpresa che non tutto, per fortuna, è perso
irrimediabilmente. Anche se quasi tutti gli antichi casini sono stati
atterrati, tra le tante costruzioni moderne e anonime, edificate con i
fondi per la ricostruzione post terremoti, spesso disabitate, o forse
mai abitate, se ne incontrano alcune disastrate, ma ancora di grande
rilevanza e dignità. E se vi fossero le indispensabili risorse
finanziarie, l’interesse e la buona volontà della gente, e la
sensibilità di qualche intelligenza illuminata, molto del nostro
passato, della nostra storia, della nostra cultura, con gli opportuni
progetti di recupero e risanamento, si potrebbe ancora recuperare,
salvare e tramandare. Altrimenti non resta che archiviare con
fatalismo questa perdita che attiene alla memoria collettiva, con la
conseguente cancellazione della storia dei luoghi, in cui tante
famiglie, per secoli, generazione dopo generazione, hanno lavorato
duramente e sacrificato la propria esistenza. Se si ritrovassero,
attraverso queste strutture rinate, il nostro passato e la nostra
cultura, ci si riapproprierebbe dell’identità perduta, si
riscoprirebbe un mondo di valori e il senso di un’appartenenza
smarrito. Non va trascurato che il loro recupero potrebbe creare le
premesse per nuove opportunità di lavoro ed essere quindi una fonte di
reddito per i giovani della zona, incoraggiandoli a non abbandonare la
propria terra per andare a cercarsi altrove un incerto avvenire.
L’idea del recupero mi balenava, osservando l’ottimo lavoro che è
stato fatto per la chiesa di San Nicola, proprio a Corsano che, fino a
qualche anno fa, era un rudere col tetto sfondato. I muri pericolanti
stavano a malapena in piedi. Ebbene, a questa chiesa è stata
restituita una dignità nuova di luogo di culto, nel rispetto della
tipologia architettonica originale. Si è provveduto a salvare, in
questo modo, non solo un luogo di fede, ma sicuramente un edificio
che, assieme al castello, è anche un punto nodale della storia della
contrada. E con i tempi che corrono non è poco. Ebbene, prendendo
spunto dall’esito del recupero di questa chiesa, meritano di essere
portate all’onore della cronaca tre strutture eclatanti, per le quali
si dovrebbe intervenire per tentare un salvataggio, sicuramente non
facile, ma con i mezzi e gli accorgimenti tecnici di cui oggi si
dispone, probabilmente non impossibile. Si può restituire ad esse la
dignità di luoghi di storia e di cultura. «Ma si tratta di strutture
private!», mi par di sentire. E l’obiezione si ripete all’infinito.
Certo, si tratta in tutti i tre casi di strutture private, e questo
non fa che complicare le cose. Ma l’Ente pubblico non può stare a
guardare sempre passivamente, fino a che l’ultima pietra non sia
definitivamente caduta.
Se il privato non ha
i fondi necessari, o non ha interesse a investire risorse nel recupero
delle proprie strutture architettoniche disastrate, che hanno o
possono avere rilevanza storica e sociale, e fare da traino per
l’economia e lo sviluppo della realtà locale, è proprio la Pubblica
amministrazione che dovrebbe attivarsi, perché edifici come questi non
vadano persi definitivamente.
Il
Castello di Corsano.
La prima struttura in
questione è il Castello di Corsano, che faceva capo a un feudo
autonomo nel medioevo. Era diverso e forse esteticamente più bello del
castello di Montecalvo, perché più residenza abitativa civile che
fortezza. È crollato a seguito dei terremoti del Novecento: 1930, 1962
e 1980. È invaso dalla boscaglia che avanza inesorabilmente, come la
giungla nei templi della Thailandia, o del Messico dei Maya e degli
Aztechi. Ma diverse strutture murarie sono ancora in piedi. E poi al
suo interno si trovano i pezzi del frantoio dell’olio, funzionante
ancora alla fine degli anni Cinquanta, integri nelle parti metalliche
e in pietra. Esistono di esso le foto scattate prima del terremoto del
1930. Si potrebbe recuperare e ricostruire buona parte dei suoi
ambienti crollati, risanarlo e destinarlo alla storia della produzione
del grano, dell’olio e del vino, istituendovi un Museo della civiltà
contadina. In questo modo lo si farebbe diventare un luogo di storia e
archeologia sociale, raccogliendovi i reperti e gli strumenti di
lavoro dismessi, ancora reperibili sul nostro territorio.
|
Il
Castello di Corsano prima del 1930
Attuale stato del Castello di Corsano |
Il casino di Stiscia in contrada Marinella.
Del casino di Stiscia
rimane in piedi solo metà facciata, quella di destra guardando con le
spalle rivolte al paese. L’altra metà fu abbattuta in ottemperanza
alla legge sulla ricostruzione post terremoto. In seguito è crollato
il tetto ma è rimasto il solaio del primo piano. È una costruzione
pervenutaci dai secoli passati (che risalga all’epoca normanna?). Già
restaurato e ripristinato in passato, con le sue sajittére,
feritoie da cui sparare, era degno delle più belle masserie
fortificate di Puglia. A osservarlo nello stato in cui è attualmente,
suona come un delitto aver abbattuto parzialmente una struttura unica
nel suo genere, consentendo che fosse ridotto nello stato pietoso in
cui si trova. Andava risanato interamente e non ordinato
l’abbattimento parziale, per lo sfruttamento della perizia per
l’edificazione di una casa colonica qualunque. Suona come una beffa
che, poco distante, sia stato edificato uno pseudo-castello medievale,
turrito e merlato, degno di un villaggio di cartapesta di Walt Disney.
E tuttavia questo casino si potrebbe ricostruire nella parte abbattuta
e risanarlo prima di tutto nella sua facciata, e poi anche nel suo
insieme. Di sicuro rivivrebbe ancora per qualche secolo e lo si
potrebbe inserire in un itinerario agroturistico.
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Casino di Stiscia
alla Marinella |
IlIl complesso edilizio della Malvizza.
Il complesso edilizio
della Malvizza è costituito dall’antica Taverna del Duca, dalla
masseria di Stiscia, con l’annessa chiesa, dal casino e dalla masseria
di Manzella, un lungo abbeveratoio e altre costruzioni abbandonate che
erano adibite a stalle o a depositi. Esso si trova sulla strada, al
bivio per Ginestra degli Schiavoni e Castelfranco, il che non guasta.
È un nucleo architettonico straordinario. Unico nel suo genere. Non ve
ne sono di simili in giro. Un complesso fantastico, solo a osservarlo.
Pure nello stato di abbandono e sofferenza in cui versa da anni. E il
tutto si arricchisce di un’aura particolare che rimanda al mito antico
– le Bolle della Malvizza, Préta pìcciula, il Ponte dei
diavoli, il Tratturo – che aleggia ancora su questo vasto paesaggio
rurale, già frequentato dai cacciatori raccoglitori del paleolitico, e
che da sempre ha alimentato l’immaginario collettivo. A Villamaina
(AV) si sta recuperando, e reintegrando nelle parti crollate, la
locale Antica Taverna. Sulla sua tabella tecnica esposta, è scritto
che essa è da destinare ad attività ricettive culturali e turistiche
nell’ambito del “Patto Turismo”. Alla luce di questo fatto, non si
capisce perché non debba essere recuperata anche la Taverna del Duca,
che oggettivamente è molto più bella di quella di Villamaina.
Ipotizzando il recupero delle altre strutture, le masserie, la chiesa
e il casino, si potrebbe progettare l’istituzione di un “Parco
Architettonico Rurale della civiltà agropastorale alla Malvizza”, per
recuperare una cultura cancellata, un’agricoltura e una pastorizia
dimenticate. Pur con un occhio al passato, esso potrebbe proiettare
verso il futuro, attivando sinergie, risorse umane e finanziarie per
un’agricoltura adeguata alle esigenze attuali. E la Legge sul
censimento delle masserie, e il finanziamento per il loro recupero,
sarebbe uno strumento idoneo, per intraprendere una via possibile
verso una rinascita. La creazione di un parco siffatto dovrebbe
privilegiare la riscoperta dell’artigianato, la valorizzazione dei
prodotti locali di nicchia, l’attivazione di circuiti turistici e di
svago, il gemellaggio fruttuoso, e non solo di facciata, con aree
geografiche similari più fortunate e importanti, la valorizzazione
delle risorse ambientali, storiche e archeologiche. Non ci si dovrebbe
mai dimenticare che, tutti insieme, abbiamo un dovere verso le
generazioni future: non si può lasciare loro un mondo inquinato,
impoverito di risorse e beni culturali, senza prospettive e una
speranza di crescita in cui credere. Recuperare queste strutture
sarebbe come dare dei punti cardinali di riferimento e qualche
certezza, in un luogo che ne ha tanto bisogno.È chiaro che queste
costruzioni, se ristrutturate, dovranno tornare a nuova vita. Non
potranno essere le nuove cattedrali nel deserto. Il Sud ne ha già
sofferto tanto in passato e per il futuro non ne ha assolutamente
bisogno.
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Taverna del
Duca alla Malvizza
Masseria
di Stiscia alla Malvizza
Ingresso della masseria
di Stiscia alla Malvizza
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Nota.
A mo’ di chiusura. Quest’articolo
nasce soprattutto da un’urgenza personale, che covavo dentro, come un
peso insopportabile, da troppi anni.
Ho dovuto fare quasi violenza a me
stesso, per trovare le parole giuste e modulare i toni per non
esternare solo rabbia. Ma posso assicurare che esso sintetizza, almeno
in parte, anche il pensiero di altri montecalvesi che, avendo scelto
il silenzio, la propria rabbia la reprimono. Ed essa produce nel tempo
mugugni e rancori. Alcuni dimorano ancora in paese. Altri sono
altrove, perché emigrati. Ma almeno una volta l’anno tornano e vedono
come vanno le cose. Ed è lampante che non vanno bene. Temo pure – e
questo è più di un vago sentore, che nasce dalla saggezza contadina
assorbita da ragazzo – che, scrivere di queste cose, che per me
equivale a dirle a voce alta, è come predicare nel deserto o urlare ai
sordomuti. Le vacue promesse, alla stregua di chiacchiere futili, e il
fatalismo non tardano a stendere, sulla rassegnazione irpina e
meridionale, un pietoso velo di silenzio, nell’oblio più totale.
Montecalvo, 3 novembre 2005 Angelo
Siciliano
www.angelosiciliano.com
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