THE
ROAD FROM ARIANO IRPINO.
(La strada di Ariano Irpino)
Louis A. De
Furia ,
nato a Newark (New Jersey, USA), nel 1928. Figlio di Alfonso –
un emigrato di origine montecalvese – era editore della rivista
New Jersey Music & Art Magazine, proprietario della
galleria d’arte Galt’s, a Chatham (N.J.), e scrittore.
Due dei suoi libri trattano di ricordi e storie di famiglia,
sullo sfondo più ampio della storia di due paesi irpini (Ariano
e Montecalvo), alla fine del XIX e inizi del XX sec.
Nel primo, (Pop’s
Page, 1994) si narrano l’arrivo e i primi anni della
famiglia De Furia in America. Nel secondo, (The Road from
Ariano, 2002) l’autore rivolge lo sguardo verso la terra
d’origine della famiglia, rielaborando i ricordi del padre
Alfonso, giunto in America diciottenne per ricongiungersi ai
fratelli e alle sorelle partiti prima di lui.
Placido A. De Furia
Questi due libri
hanno avuto circolazione all’interno della comunità di origine
italiana del New Jersey, con echi sulla stampa locale.
Dal secondo libro
sono stati estratti e tradotti in italiano, con il consenso
dell’autore, alcuni brani a cura di M. Sorrentino. I brani
furono presentati pubblicamente mediante lettura e recitazione,
nella saletta delle conferenze di San Pompilio M. Pirrotti di
Montecalvo, il 3 novembre 2002. Sorrentino curò anche la
distribuzione agli intervenuti degli estratti raccolti in un
opuscolo.
Gli estratti (nelle
due versioni inglese ed italiana) sono stati pubblicati anche su
questo stesso sito, nella rubrica
“Cultura & Tradizioni”, curata da A. Caccese.
Louis A. De Furia è
morto il 26 settembre 2003, nella sua casa di Livingston (New
Jersey). |
Il 3
novembre 2002, M. Sorrentino presentò pubblicamente nella saletta
delle conferenze di San Pompilio M. Pirrotti, a Montecalvo Irpino,
alcuni brani che egli aveva tradotto in italiano scegliendoli da
“The Road from Ariano Irpino”, di Louis A. De Furia, un romanzo
ambientato ad Ariano e a Montecalvo a metà del XIX sec., edito a
Livingstone, NJ, U.S.A, 2002. (Library of Congress Control Number
2002091646. Copyright by Louis De Furia, 2002).
I brani furono presentati e letti da alcuni giovani agli
intervenuti, ai quali fu poi distribuita una raccolta degli stessi
brani pubblicata dal traduttore, con il permesso dell’autore.
Redatta
la scheda informativa precedente per motivi di copyright, mi piace
presentare un altro brano del romanzo di Louis A. De Furia, con la
speranza di fare cosa gradita agli amici di Irpino.it . Vi si narra
di un colpo di fulmine scoppiato giù al Trappeto, verso la metà del
XIX sec. tra il mio bisnonno da parte materna Placido De Furia,
originario di Ariano, e una bella ragazza del Trappeto, Anna Di
Florio, figlia di Antonio, destinata a diventare poco dopo mia
bisnonna.
L’ambiente umano del racconto non riguarda la classe dei contadini,
che costituiva la stragrande maggioranza degli abitanti del
Trappeto, ma quella dei piccoli commercianti e degli artigiani (i
masti), spesso imparentata con la precedente, anche se, detto senza
nascondere ipocritamente la verità, da quella classe bistrattata gli
altri prendevano le distanze. Nel brano questa verità viene un po’
nascosta dalla ricostruzione fatta in ambiente di emigrazione, in
cui si è sempre stati portati, per ragioni ben note, a vantare
origini non umili, spesso edulcorandole alquanto. Quanti emigrati di
seconda e terza generazione, in America o in altri paesi, ammettono
tranquillamente che i propri ascendenti scapparono dai paesi di
origine perché morivano di fame?
Agli amici del Forum che rivendicano con orgoglio l’origine
trappetara, dico che anch’io ho un legame con quel nostro sventurato
quartiere, oltre che per motivi di attrazione estetica e di
interesse per la nostra cultura tradizionale più autentica, anche
per un legame di ascendenza familiare che ho scoperto di avere
soltanto leggendo il romanzo del cugino Louis De Furia.
Informo inoltre che i brani tradotti in precedenza sono reperibili
con ricerca libera in “Cultura e Tradizioni” del precedente sito di
“Irpino.it”, curato da Alfonso Caccese.
Bologna, il 21 giugno 2008.
Brani estratti e tradotti dal romanzo di Louis A. De Furia, “The
Road from Ariano”, Livingstone (New Jersey- USA), 2002, pp. 54 – 72.
AMORE ROMANTICO AL
TRAPPETO
“Una fredda mattina ventosa, sotto un cielo coperto, Minguccio
Tedesco e il suo apprendista scendevano per Via Monte con
destinazione il Trappeto. C’è da scommettere che avrebbero preferito
entrambi restarsene a casa al caldo. Camminavano in silenzio,
tenendosi strettamente avvolti i vestiti addosso, per ripararsi dal
vento che s’infilava ululando tra i palazzi ornati di stucco.
Camminavano in fretta rasente ai muri, cercando di trovare un po’ di
protezione dal vento pungente. Le folate divennero più
insopportabili e Minguccio si ravvolse meglio che poté nel largo
mantello di lana, tirandoselo davanti alla faccia…
Andavano a casa di don Antonio Di Florio per un lavoretto di favore,
giù al Trappeto, una passeggiata non proprio corta. Di Florio aveva
chiesto a Minguccio se andava a trapanargli il coperchio di una
botte nuova di quercia per il vino e istallarci lo zipolo. “Ha
scelto proprio una bella giornata per chiedermi il favore,” si
lamentò tremando dal freddo Minguccio. Non sarebbe certamente sceso
lui nella fredda cantina scavata nel tufo. Un bel guadagno ci
avrebbe ricavato dopo quella gelida passeggiata. Era perciò contento
di essersi portato dietro l’aiutante. La cantina sarebbe spettata a
Placido. A lui, Minguccio, spettava il posto di comando accanto al
camino acceso…
Raggiunta la casa ed esaurite le battute di spirito con Antonio e
sua moglie, Minguccio attaccò con la recita seriosa del mastro che
istruisce l’apprendista su dove fare il buco per lo zipolo. Nel
frattempo non trascurava di rassicurare don Antonio, dicendogli che
nutriva una gran fiducia nel suo discepolo perché conosceva
abbastanza bene il lavoro. Si trattava, per la verità, di una cosa
ridicolmente facile. Però Minguccio continuava lo stesso a dare le
sue istruzioni rivolgendosi a chi voleva ascoltarlo; “Calcolare
l’altezza giusta a partire dal fondo della botte è un compito che
richiede grande maestria,” diceva con tono d’importanza. E
continuava: “Bisogna saper stimare l’altezza della posa del vino
nella botte, in modo che non venga estratta con il vino chiaro”. Una
banalità stupida: la posizione dello zipolo non cambiava da secoli.
Ma facendo finta che fosse un’osservazione giudiziosa, Placido e don
Antonio assentirono con la testa. Dopo qualche attimo, parlando
sottovoce Minguccio disse al compagno di lavoro: “Io ti aspetterò
qui a scambiare qualche chiacchiera con don Antonio e, chissà, a
bere un bicchiere.”
La casa di don Antonio era a un solo piano con la parte interna
confortevolmente incavata nel fianco del monte. All’origine una
semplice grotta, che tre generazioni e forse più di Di Florio
avevano pazientemente ingrandita nei mesi invernali scavando nella
montagna. E i blocchi di tufo ricavati dallo scavo avevano
utilizzato per allargare la costruzione esterna.
Don Antonio avrebbe potuto vivere in un posto “migliore” ma nella
zona c’erano altre case–grotta e ci viveva gente alla quale si
sentiva molto legato. Inoltre, le grotte avevano una temperatura
fresca e costante adatta a conservare il vino…
Oltre a questa casa, don Antonio possedeva un podere grande in
contrada Magliano, nella quale la famiglia si trasferiva dall’inizio
della primavera sino a tutta l’estate per i lavori dei campi…
Entrando dall’unico accesso esterno, ci si veniva a trovare in una
cucina semplice dove il fuoco era sempre acceso nel camino per
attenuare il freddo dei muri a secco e naturalmente per cucinare. Al
centro, una pesante tavola di legno, sedie impagliate e una panca a
uno dei lati al camino. Un buon posto per sedere a contemplare le
fiamme, risistemare i propri pensieri, oppure seguire la
preparazione dei pasti in pesante pentole di rame. Utensili prodotti
localmente dal fabbroferraio masto Lanza a colpi di martello…
Andando oltre la cucina, ci si imbatteva nel letto dei genitori e in
due grandi ceste per il bucato. Una cesta per i panni puliti e
ripiegati in un qualche ordine, e l’altra per quelli da lavare.
Ancora più in fondo nel fianco della montagna, si trovava un grande
arcone, un cassone di zinco con dentro un divisorio per conservare
senza mischiarli grano e granturco. A separare l’abitazione vera e
propria dal resto c’era un divisorio di legno. Oltre questo, si
apriva la cantina, dove don Antonio vendeva all’ingrosso il vino; e
qui si apriva anche l’ingresso che portava giù alla grotta del vino
con scalini intagliati nel tufo.
Piazzate su una bassa piattaforma di roccia, c’erano qui una dozzina
e più di botti segnate con strane scritte con il gesso, secondo un
codice a uso di don Antonio per registrare l’annata, la qualità e i
vari prezzi…
Sceso giù per i gradini, Placido scrutò verso il fondo più buio
della grotta del vino aspettando che gli occhi vi si abituassero e
potessero vedere oltre il ristretto circolo di luce della lucerna a
olio che portava con sé. Spazzata via la polvere dal fondo della
botte ancora chiara che l’aspettava, cominciò a trapanarla. Fissò
con cura la punta del trapano e intaccò il legno…
La botte poteva contenere circa 550 litri…
Il foro fu completato con pochi altri giri del trapano, ma
conoscendo Minguccio, sapeva che avrebbe dovuto perdere ancora
tempo. Si guardò in giro per trovare qualcos’altro da fare…
Cavò di tasca dei chiodi e fissò al fianco della botte delle zeppe
di legno duro che servivano a tenerla ferma…
“Ecco fatto, un lavoro che se ne starà bello e sicuro, come un pugno
di monete nella tasca del prete”, disse a alta voce, mentre cercava
in giro un bicchiere. “E’ un lavoro che mette sete.” Bicchieri non
se ne vedevano, ma c’era una caraffa capovolta sulla pancia di una
botte lì accanto… Era una colpa lieve, ragionò, servirsi da bere da
solo: don Antonio non avrebbe mai negato a un lavoratore uno o due
bicchieri del suo vino…
Intingendo il dito nel vino della caraffa, lo annusò e l’assaggiò…
sedendo poi sulla piattaforma delle botti, mandò giù un paio di
sorsate e si accorse che la caraffa conteneva più vino di quello che
aveva pensato. Se l’accostò alle labbra e lentamente la svuotò.
Sarebbe stato un peccato sciupare questo vino…
Prosciugò e rimise al suo posto la caraffa, si asciugò la faccia e
le mani con il fazzoletto, ripose gli attrezzi nella borsa e risalì.
Appena su, gli chiesero di accompagnare in cantina Anna, la figlia
di don Antonio che era arrivata mentre lui stava trapanando la
botte. Don Antonio le aveva chiesto di portare su un’anfora di vino
nuovo…
Placido reggeva la lucernetta precedendo la ragazza nella discesa e
girandosi ogni tanto di lato per illuminare uno scalino alla volta,
quando rimase trafitto dal particolare della gonna sollevata. Senza
che lei ne fosse cosciente, ma con un effetto estremamente
provocante, le si vedevano le caviglie bianche e morbide…
Prima in cucina fu contento della presenza di quell’amore di
ragazza. Sapeva che don Antonio aveva una figlia, l’aveva anche
vista una o due volte traversare la piazza insieme alla madre, ma
ricordava una ragazzina, una bambina, non quella ragazza in pieno
sboccio…
Rispose: “No, non sono legata a nessuno” e scoppiò a ridere messa in
difficoltà dalla pazza proposta di Placido di volerla sposare.
Intanto di sopra, Minguccio, che era a secco, si preoccupava per
quel ritardo, immaginando Dio sa che cosa. Poteva mai essere che
fosse colpa del suo aiutante? Mannaggia, don Antonio non gli avrebbe
certo riempito ancora un altro bicchiere di vino mentre si aspettava
quello nuovo…
LOUIS A.
DE FURIA
THE
ROAD FROM ARIANO IRPINO.
Brani scelti e
tradotti a cura di M. Sorrentino
Prefazione (di M.
Sorrentino)
Quest’opera di Louis A. de Furia
è effettivamente un tentativo riuscito di risuscitare persone, fatti
e posti di cui nessuno prima aveva scritto in modo impegnativo.
Sinora non era possibile neanche pensare che fossero mai esistiti.
Nessuno aveva mai considerato quelle persone, fatti e luoghi – e
questo è preoccupante – come materiale degno di narrativa, sia nella
nostra Irpinia che in quella piccola comunità americana che fa
risalire le proprie origini sino a una sconosciuta e montuosa zona
del Sud d’Italia… Grazie a Dio esistono ancora in Irpinia le fonti
della tradizione orale: canzoni e racconti del folklore, credenze
religiose e superstizioni, oltre che storie di famiglia ben
documentate. Sono questi gli elementi che il cugino Luigi ha
amalgamato meravigliosamente insieme. Ecco qui un romanzo storico in
cui persone e fatti, che altri scrittori disdegnano, assumono vita
miracolosamente, apparendoci memorabili e degni di affetto. E, al
mio orecchio di italiano, questa prosa, e specialmente il giro delle
frasi (anche se in inglese e riportate in forma di discorso
indiretto dei vari personaggi) evocano il modo di parlare dei miei
genitori, dei vicini di casa e degli amici perduti. In breve, tutte
le particolarità linguistiche della mia terra d’origine, dove il
dialetto viene ancora parlato quando uno vuole esprimere affezione e
amicizia.
Introduzione (pp. 3-4)
La parte più
consistente della presente narrazione deriva da uno scritto di mio
padre, Alfonso De Furia, che si sforzò di raccogliere sotto forma di
cronaca storie udite da ragazzo. Le aveva raccolte per iscritto
quando era un immigrato ancora fresco, relativamente parlando, qui
in America. Avendo perso il padre da poco, fu preso dal timore che
la componente italiana della nostra storia potesse andare perduta
per le generazioni che sarebbero nate qui, in un’America che poteva
diventare un nuovo enigma per loro. La cosa che agì da stimolo su di
lui, nell’estate del 1934, fu una mostra di macchine da scrivere
Underwood che vide ad Atlantic City, New Jersey, durante una
vacanza poco dispendiosa (erano i tempi della Depressione) trascorsa
in quella città con la famiglia. Stavano a pensione presso un
compaesano che viveva lì e il loro massimo divertimento di
villeggianti era godere dei suoni e del vivace movimento della
passeggiata a mare, tutto totalmente gratis. In una vetrina
dell’Hotel Resort che guardava sul lungomare c’era in mostra un
modello di macchina da scrivere gigante, alta più di tre metri e
mezzo, se la memoria non fa scherzi, la quale era collegata a una
tastiera a distanza posta su una scrivania. Quel mostro
scintillante, nichelato e nero di lucido smalto, catturò e infiammò
la sua immaginazione. Guardava a bocca aperta la macchina mentre
stampava lettere alte venti o venticinque centimetri, e gli sembrò
di aver trovato la soluzione di cui aveva bisogno per completare
rapidamente e efficientemente la cronaca di famiglia. Acquistò una
portatile, accampando poi timidamente la scusa con mia madre (la
quale portava in grembo da quattro mesi colui che sarebbe diventato
il terzo figlio) che, insomma, sarebbe stato molto utile ai figli
imparare a scrivere a macchina. Iniziò così a scrivere ciò che
state per leggere, la storia di Placido, battendo i tasti con due
sole dita, nel dialetto del suo paese.
Capitolo Secondo (pp.
27-31)
Portava
sottobraccio un malloppo di vestiario: una camicia, dei fazzoletti,
calze e un paio di calzoni da mettere la domenica. Appeso all’altro
braccio reggeva una cassetta con gli attrezzi del mestiere,
attrezzi da falegname appartenuti a suo padre. Erano pochi e
costituivano la porzione che gli era toccata quando avevano diviso
l’eredità con i fratelli. Erano stati fatti da suo padre, Liborio,
usando legni duri locali come il durame di noce che, se stagionato,
è più duro del ferro. Quando il padre rimaneva soddisfatto della
forma dell’attrezzo (perché un vero ‘masto’ si preoccupa sia del suo
aspetto estetico che della funzionalità) lo portava alla ferramenta Lanza, ordinava lame d’acciaio di tempra e lo
completava. In questo modo si era fatta una grande varietà di
pialle, dalle sponderuole per lavori di modanatura, alle pialle più
grandi per lisciare tavole. Placido ci stava attento a questo suo
patrimonio, perché sapeva quanta fatica erano costati a suo padre.
Sostituirli sarebbe stato difficoltoso e anche costoso.Giunto alla
Madonna dell’Abbondanza, alla periferia della città, voltò e
cominciò a scendere per Via di Monte Carmelo, una scorciatoia che
portava in campagna. In meno di cento metri, arrivò a un incrocio
dov’era la fontana pubblica detta “Fontana della Tetta”, che – alla
lettera – significa appunto “della mammella”. Alla fontana era stato
dato quel nome per la credenza che la sua acqua facesse bene alle
mamme che allattavano. Forse nell’acqua era presente in sospensione
un qualche nutriente naturale. Gli arianesi, inoltre, pensavano che
bere alla fontana portasse fortuna. L’acqua proveniva da una
sorgente che era in alto, sulla montagna, e veniva incanalata verso
una cisterna per mezzo di una tubatura di terracotta impiantata
secoli prima da contadini longobardi.
Si fermò e con un sospiro di sollievo, dopo aver salutato con cenni
del capo alcune donne venute a prendere acqua, posò a terra il suo
bagaglio che stava diventando già pesante. Staccò il mestolo di rame
battuto dall’uncino di ferro lavorato, lo tenne sotto il getto
dell’acqua per riempirlo e bevve. Placido sapeva che quella era
l’ultima fontana che avrebbe trovato lasciando Ariano…
Salutò con un cenno del capo le donne venute a prendere acqua e
riprese il cammino. Nessuna di loro aveva dato mostra di accorgersi
del saluto, ma lui sapeva che non doveva aspettarselo. L’etichetta
sociale disapprovava un tale segno di familiarità in una donna.
Capitolo Terzo (pp.
37-38)
Fedele Tedesco era
un mastro falegname di Montecalvo. Era molto apprezzato nel paese e
nei dintorni per la sua bravura: non solo faceva infissi – porte e
finestre – ma godeva anche di una ben meritata reputazione come
mobiliere raffinato. Del resto, faceva qualunque tipo di lavoro con
buona volontà per sostenere la famiglia. Spaziava perciò dalle arnie
per le api ai mobili di lusso finemente intagliati. E andava fiero
non poco del suo lavoro.
Sfortunatamente era privo di senso dell’umorismo: la vita per lui
era una faccenda seria. Sorrideva raramente, eccetto che a sua
figlia Marantonia. Quando lavorando ne udiva la voce, mentre di là
lei rideva insieme alla madre, gli sfuggiva un sorriso che svelava
quale fosse l’affetto per quella figlia. E se la guardava gli si
illuminava il volto.
Uno dei racconti su di lui, che veniva ripetuto ogni volta che
veniva fuori il suo nome in un discorso, era quello dell’albero di
castagno che aveva comprato “sull’unghia”, per dir così. Il
proprietario voleva sbarazzarsi dell’albero e lui ne aveva
contrattato l’acquisto quando la pianta stava ancora ritta sulle
radici. Il prezzo pagato da Fedele era stato veramente irrisorio –
poche lire, tutt’al più – poiché sapeva che avrebbe dovuto
abbatterlo e trasportarselo a casa, prima di poter pensare a
qualsiasi guadagno sul suo investimento.
Si diceva, invece, forse esagerando un po’ come avviene di solito
nelle leggende, che fosse vissuto su quello che gli apportò l’albero
un anno intero. Dai rami più sottili, che divisi in strisce gli
servirono per farne canestri, alle tavole piallate per mobili, tutto
venne usato. Il suo investimento fruttò al massimo e allo stesso
tempo – chi l’avrebbe detto? – servì ad arricchire con una nuova
storia il folklore paesano. “Masto” non era un vuoto titolo d’onore
nei saluti che gli venivano indirizzati.
Non avendo figli maschi aveva accettato un apprendista nella sua
bottega. Gli avrebbe insegnato tutte le finezze del mestiere
facendolo lavorare con lui. Placido, il nuovo apprendista, non aveva
vincoli di sangue con la famiglia Tedesco, ma era un parente
acquisito per matrimonio, perciò l’uso di “zio” da parte del giovane
verso Fedele.
Fedele, lavoratore instancabile, aveva appreso il mestiere dal padre
insieme al fratello Domenico. Il mestiere costituiva un’eredità che
equivaleva ai soldi o alla proprietà. C’era una “piccola” differenza
tra i due fratelli, c’è da dire. Diligente l’uno: Fedele; indolente
l’altro. L’allegro Domenico era un buon mastro d’ascia, ma era più
attirato dalle carte da gioco e dai divertimenti che dal lavoro.
Possiamo dire che se gli offrivano uno o due bicchieri di vino non
li rifiutava mai? Non era da lui offendere con un rifiuto un padrone
di casa ospitale. Fedele riteneva riprovevoli tali bizzarrie e
giudicava Domenico capriccioso e scialacquatore. Ciò nonostante
quel birbante di Domenico riusciva simpatico a tutti perché era
socievole e amicone, al contrario del fratello che era riservato.
La figlia di zi’ Fedele, Mariantonia, era un bocciolo di gioventù.
Tutti quelli che la vedevano, anche gli estranei, ne erano
affascinati. Ma lei, per l’eccessiva modestia, era totalmente ignara
degli effetti che produceva sugli altri.
Capitolo Settimo (pp. 102-105)
Fu alcuni anni dopo che Placido ebbe aperto lo spaccio di generi
alimentari che i lavoratori della nuova ferrovia raggiunsero i
confini comunali, giù nella valle. Una buona occasione, ci si
sarebbe potuto aspettare: quell’afflusso di operai affamati offriva
una possibilità di guadagno a Placido. Gli operai della ferrovia,
eccetto pochi settentrionali, erano per la maggior parte lavoratori
reclutati nei dintorni di Napoli, o per via, a mano a mano che
avanzava il tracciato. In mezzo a loro, un miscuglio poliglotta di
contrabbandieri italiani e francesi, tedeschi giramondo e vagabondi
austriaci, socialisti e briganti in fuga dalla legge. Anche
contadini, avventurieri, i soliti giocatori d’azzardo e la gente
strana che segue i cantieri. Le squadre lavoravano nella zona detta
‘la Cristina’, e gli operai erano ormai belli e stanchi dei
venditori ambulanti, infidi come zingari, che li seguivano per
vendergli le cose di cui avevano bisogno. Ed erano nauseati del
pane ammuffito e stantio, delle zuppe scotte e oleose, mischiate con
frattaglie immangiabili e scarti di carne grassa nelle marmitte
della ditta. Gli operai cominciarono a salire al paese per
comprare roba da mangiare. Volevano roba decente, ma a credito.
Perché a credito? Perché l’appaltatore, un certo signor Melisurgo,
per contratto avrebbe dovuto pagare gli operai ogni quindici giorni,
ma una volta sì, una volta no, il giorno di paga cambiava. Cambiava
in base al capriccio dei burocrati dell’ufficio amministrativo,
ragionieri e cassieri, così rapaci come solo sanno esserlo dei
subordinati dalla mente meschina che si ritrovano con un po’ di
potere tra le mani. Erano questi impiegati completamente succubi
delle lusinghe e dell’opera di corruzione degli amministratori dei
comuni posti lungo il tracciato. Presi dall’ansia che gli operai
potessero non spendere le loro paghe nelle cantine e negli altri
negozi del proprio paese, questi amministratori corrompevano i
cassieri della ditta affinché rimandassero o anticipassero i
pagamenti agli operai (a seconda che i cantieri stessero per entrare
o per andar via dai loro territori)1.
Per quanto
favorevole potesse sembrare la loro presenza, in tutta onestà,
nessuno, eccetto ovviamente gli ingenui, avrebbe potuto considerare
quegli uomini, che si spostavano continuamente per deporre i binari
lungo il tracciato, gente di cui fidarsi al punto di fargli credito.
Si trattava di un branco di rozzi manovali che si rinnovava
continuamente. Erano abituati a dormire nei carri ferroviari su
giacigli di paglia. E molti dormivano addirittura sotto le stelle,
coperti da stracci e sulla paglia pure loro. Dormivano con la pala e
il piccone a fianco, perché se li perdevano glieli addebitavano
sulla paga. Alcuni di loro più fortunati, lavoratori specializzati
dell’Alta Italia, per lo più, erano alloggiati nell’ospedale
dell’Annunziata. Placido aveva clienti tra gli operai. Quell’impresa
straordinaria della ferrovia, pensava, poteva essere una buona
opportunità per il suo spaccio. Fu sedotto e si convinse, dopo
qualche riluttanza, a dar via la roba a credito. Gli operai
promettevano, giuravano che avrebbero pagato scrupolosamente – “per
la Madonna”, quando a loro volta fossero stati pagati dai capi.
Placido veniva dunque continuamente rassicurato che avrebbe ricevuto
i suoi soldi. Sapeva di correre dei rischi, ma quando si sarebbe più
presentata una possibilità come quella per migliorare la propria
sorte? Quante altre ferrovie sarebbero mai arrivate da quelle parti?
Era sicuro che la Provvidenza gli stesse sorridendo, perciò fece la
scommessa che avrebbe avuto fortuna.
Passò del tempo
ma, per la verità, di pagamenti di qualche importanza neanche
l’ombra: Placido non incassò se non complimenti e promesse. I lavori
della ferrovia si spostavano in avanti, sempre più lontano dal
territorio comunale, e gli operai continuavano a promettere che
avrebbero pagato. Alcuni ancora tornavano alla fine della giornata
di lavoro, un lungo e arduo viaggio a piedi su per la montagna, per
mangiare qualcosa e poi bighellonare nelle piazze del paese. Quando
finalmente gli operai vennero pagati, si trovavano però già a
Pianerottolo, fuori del territorio montecalvese. I clienti di
Placido, naturalmente, si erano spostati insieme al loro cantiere,
che era quello di testa.Dopo aver aspettato pazientemente un bel
pezzetto senza ricevere neanche un soldo, su insistenza di Anna, sua
moglie, Placido andò a cercare gli operai per farsi pagare. Portò
con sé il figlio Gaetano, allora soltanto un ragazzino. I fornitori
dello spaccio stavano diventando nervosi e minacciavano denunce.
Placido si sentiva perciò obbligato a partire e tentare di
incassare: non aveva scelta. Andarono al cantiere, il padre con la
lista dei debitori in mano. Si misero a cercare facce conosciute
nella folla degli operai. Prima però Placido aveva chiesto il
permesso al padrone del cantiere, il quale per tutta risposta aveva
detto con tono sprezzante: “Accomodati pure!” Non era nuova quella
storia per l’appaltatore: a partire da Napoli, si era ripetuta quasi
in ogni posto in cui il cantiere era passato.
Placido aveva
tenuto la sua lista aggiornata, con tutti i nomi e i crediti scritti
con cura. Una cosa priva di senso, perché la stragrande maggioranza
degli operai non sapeva leggere niente, figurarsi un conto. Sapevano
soltanto firmare con un segno di croce. Era una cosa stupefacente
come certi scarabocchi e segni di croce somigliassero a tanti altri,
ingenerando dubbi sia nel venditore che nel cliente. I conti che
Placido mostrava venivano negati con veemenza. E si spaventò quando
alcuni operai gli chiesero quanti dei suoi ex clienti della lista
erano già morti, o magari rientrati a casa gravemente ammalati,
mentre il cantiere, fatti i bagagli, si era spostato.
Altri li
salutavano con urli di “Ué” o con fischi, per mettere in guardia
altri bei tomi pari loro che lavoravano più avanti lungo i binari.
Molti negavano il debito, se mai si riusciva a scovarli dopo che
erano stati preavvertiti. Lo negavano con una bugia già
sperimentata, rispondendo che neanche sapevano dov’era Montecalvo,
figurarsi il suo negozio. Così maltrattati, padre e figlio alla fine
non sapevano che altro fare – come se ci fosse una qualsiasi cosa
che potessero fare. Dopo l’irrisione con cui i pagamenti erano stati
negati, il clima si stava facendo brutto veramente. Se Placido e il
figlio non se la fossero data a gambe alla svelta, certamente la
folla minacciosa li avrebbe massacrati di botte volentieri, come
ricompensa per la loro ingenuità.
Capitolo Nono (pp.
147-150)
Il ragazzo non ignorava che “l’abbandonato” del paese, di cui si
mormorava che fosse un prete scomunicato, era fratello di suo padre.
Aveva visto per anni quel vecchio sedere in piazza a scaldarsi al
sole, oppure mentre andava in giro, ma non aveva mai udito qualcuno
parlare di lui o sentito dire che era suo zio. Ad ogni modo egli
sapeva che quell’uomo era uno dei fratelli di suo padre. Era un uomo
di piccola statura che incuteva un certo timore. Una volta l’aveva
fissato per un attimo come se lo riconoscesse, ma era stato solo un
lampo negli occhi del vecchio. Occhi che per l’età, la vita
dissipata erano diventati spenti e avevano perso vivacità. Gaetano
era fiero di portare il nome di un altro zio prete, un prelato molto
riverito, di cui suo padre parlava continuamente. Il ragazzo era
mortificato di non sapere dedicare neanche un angolino della sua
mente a quell’alcolizzato, a quell’uomo abbrutito. Per carità, visto
che tutti l’aborrivano in paese. Ma Gaetano non aveva molto tempo
per mettersi a pensare a quell’uomo strano. Mandato una volta da sua
madre - la compassionevole Anna – Gaetano portò al municipio dei
vecchi panni da dare a Liberatore. Si trattava dei vestiti
appartenuti a un vicino di casa passato a miglior vita che lei
pensava potessero andar bene al vecchio. Le donne compassionevoli
comprendono quali sono le forze e gli istinti che possono abbrutire
un uomo. E sono tolleranti verso chi li subisce, anche se moralmente
considerano quelle forze e quegli istinti aberranti. Più tolleranti
degli uomini, ad ogni modo. La ragione forse dipende da qualcosa
presente nel patrimonio genetico delle donne. Comunque, la roba
portata al comune da Gaetano era così lisa che poteva essere
difficilmente indossata, ma allora i vestiti venivano portati finché
non si lacerava l’ultima fibra. In quell’occasione capitò che i due
s’incontrassero. La cosa li colse entrambi di sorpresa. Gaetano in
seguito cercò di ricordare se lo zio fosse veramente così basso, o
se non fosse piuttosto piegato dai reumatismi. Il ragazzo non s’era
trattenuto abbastanza a lungo da poter ricordare bene l’incontro.
Aveva deposto il pacco a terra vicino a Liberatore, lì nell’atrio
del municipio. Solo più tardi ricordò che aveva provato un senso di
paura, di cui non sapeva spiegarsi il motivo. Più tardi capì che
quel sentimento era ingiustificato e che il vecchio non avrebbe
potuto né voluto far del male a nessuno. Si era girato per andar
via, dopo un attimo d’esitazione, quando sentì pronunciare il suo
nome: “Gaetano”. Doveva essere stato Liberatore. Ma Gaetano non ne
fu mai certo. Echeggiava qualcosa nel tono di quella voce: una
domanda? un’affermazione? un lamento? Non riusciva a decidersi tra
queste tre possibilità, quando più tardi suo padre l’interrogò. Dopo
qualche tempo dubitò di aver mai udito il nome. Aveva forse il
vecchio riconosciuto nei lineamenti del ragazzo qualcosa che per un
istante straordinario aveva riportato alla luce un ricordo del suo
passato? Si può immaginare con quanta dolcezza sarà risuonato quel
nome sulle labbra di Liberatore? Il sensibile Gaetano non dimenticò
mai quell’incontro casuale. Il suo ricordo lo accompagnò tutta la
vita. Alla fine, la triste storia di Liberatore gli fu svelata. Anna
fu costretta a rivelargli il passato travagliato del prete, tanto
incalzanti erano diventate le domande del ragazzo. Suo padre, gli
fece capire la madre, si vergognava di essere parente di uno che non
poteva essere redento nel modo più assoluto. Un “ubriacone
dimenticato da Dio”, diceva il padre. Ma si sbagliava: Dio non
abbandonò mai Liberatore. E siamo sicuri che anche Liberatore lo
pensava. Come possiamo sapere una cosa simile? Be’, perché quando fu
trovato morto stringeva nella sua mano esile il rosario. Un rosario
fatto di noccioli di olive che provenivano, come si diceva, da un
ulivo del Getsemani. Era un segno certo che egli si considerava
ancora un cristiano, anche se indegno agli occhi degli altri. C’era
poi un altro segno… esito a parlarne, però sulla pelle rinsecchita e
tesa della fronte di Liberatore era graffiato il segno della croce.
Chi poteva averlo tracciato se non il prete in persona? Che cosa
voleva esprimere con quel segno? Toccò a Gaetano portare a
seppellire Liberatore, con un carretto e un cavallo presi a
prestito. Pure a prestito era il becchino comunale che se ne stava
seduto sul carretto accanto al cadavere piccolino di Liberatore
avvolto nel sudario. Del lusso di una bara di legno di pino, neanche
a pensarci. I due erano tutto il corteo che presenziò al triste rito
finale del prete scomunicato. Lo portarono al cimitero e lo
seppellirono in una fossa anonima. Né una croce né una lapide
distinguevano la fossa. Niente di niente. Non piantarono nella terra
soffice appena scavata neanche un ramo strappato da qualche siepe
vicina, in commemorazione del defunto. Quando ebbero finito e
Liberatore se ne stava al sicuro nell’abbraccio della madre terra,
il ragazzo fu sopraffatto all’improvviso dalla compassione. Sentiva
di dover fare qualcosa, magari raccogliere un po’ di fiori
selvatici, di boccioli di trifoglio, o anche dell’erba tenera da
deporre sul tumulo. Esitò e non ne fece niente, temendo una qualche
parola beffarda del becchino impaziente. Il degno lavoratore voleva
andarsene subito e brontolava: “Ci ho guadagnato una miseria con
questo lavoro. Solo tempo sprecato per un cadavere che non se lo
merita”.
Capitolo
Undicesimo (177-180)
Masto Gaetano fu nominato postino capo di tre comuni nel 1880. Era
l’unico ufficiale postale di Montecalvo, Casalbore e Sant’Arcangelo
Trimonte. Restò in servizio cinquantadue anni, il più lungo servizio
che si registrasse a quei tempi, un record di cui egli andava fiero…
Un biroccio1
tirato da due cavalli, che giungevano spossati sulla sommità,
portava giornalmente la posta dal deposito ferroviario, che era giù
nella valle. Condotti con un atteggiamento di studiata importanza
dal birocciaio, i cavalli passavano sotto lo sguardo annoiato dei
vecchi perdigiorno della piazza, i quali, giudicando dal fatto che i
cavalli fossero o meno sudati, concludevano, nel primo caso: “Deve
essersi fermato da qualche parte ”. Non sbagliamo a dire che
l’arrivo del carro postale era un avvenimento importante, all’epoca.
Una volta giunto su terreno piano, il conducente metteva al passo i
due cavalli che sbuffavano e attraversava così la piazza sino
all’ufficio postale.
L’ufficio postale,
a quel tempo, era ricavato in una stanza di sasso che si affacciava
sulla piazza che (oggi) è detta di San Pompilio M. Pirrotti. Lo
spazio era stato recuperato dal vecchio Ospedale di Santa Caterina.
La piccola stanza era stata in altri tempi una specie di atrio
presidiato da monaci e monache, che vi facevano una cernita
rudimentale degli ammalati da ricoverare. Sfortunatamente l’ospedale
era stato già distrutto molti anni prima da un terremoto che aveva
devastato gran parte del paese.
Dopo aver fermato
il suo biroccio davanti all’ufficio postale, il conducente scendeva
e stringeva la martinicca per evitare che i cavalli si sviassero.
Una precauzione necessaria che lo faceva imprecare in più di
un’occasione. Era convinto che gli animali diventassero nervosi
perché venivano disturbati dai lamenti e mormorii degli spiriti che,
secondo lui, abitavano nell’antico edificio. Forse era vero, ma
Gaetano, stanco di sentire sempre questa storia, insisteva a
spiegare che era il vento il quale, risalendo su per le pendici
della montagna, s’infiltrava tra le crepe e le lesioni nei vecchi
muri di sasso dell’edificio e faceva quei suoni strani. Il
birocciaio non voleva saperne di una spiegazione tanto semplice,
sapeva lui quello che sapeva, del resto egli credeva nelle capacità
extra sensoriali dei suoi cavalli.
L’uomo consegnava
il sacco della posta e Gaetano firmava il modulo di ricevimento. A
quel punto, dopo aver firmato il registro giornaliero dell’ufficio,
il birocciaio prendeva la posta in partenza e la metteva
nell’apposito sacco. Su entrambi i sacchi era stampato lo stemma del
Regno d’Italia.
L’uomo parlava
abitualmente con i suoi cavalli. Gli prometteva il meritato riposo
giù alla stazione. Sempre le stesse chiacchiere che sembravano avere
un effetto calmante sulle bestie. Il viaggio di ritorno alla
stazione cominciava dopo aver abbeverato i cavalli alla fontana.
L’uomo si serviva del secchio appeso dietro al biroccio, ma, cosa
divertente, nell’abbeverarli doveva ricordare quale dei due era
stato il primo all’ultima abbeverata. Se scombinava il turno, il
cavallo che subiva il torto rovesciava con un calcio il secchio
pieno d’acqua, impedendo così al compagno di bere. Il secchio veniva
riempito di nuovo e il cavallo beveva indisturbato, mentre l’altro
se ne stava tranquillo ad aspettare il turno. Il birocciaio se la
godeva un mondo a questa sceneggiata, facendo finta di rimproverare
la bestia che aveva rovesciato il secchio per il divertimento di
eventuali spettatori. Avrebbe potuto portarsi dietro due secchi, ma
se l’avesse fatto, nessuno avrebbe saputo quanto erano intelligenti
i suoi animali…
Masto Gaetano
portava il sacco sigillato nella sua arcaica sede e, dopo averlo
aperto, cominciava immediatamente a fare la cernita, disponendo le
lettere per zone, poi in base alle vie e infine ai numeri civici, in
modo che la posta, i giornali ecc. potessero essere distribuiti il
più presto possibile. Alcuni degli anziani della piazza ricevevano
regolarmente rimesse dai loro figli emigrati. Spesso la busta
conteneva soltanto il vaglia. Raramente nello spazio apposito vi
erano altre parole oltre a “Tanti baci”, magari scritte
dall’impiegato che aveva emesso il vaglia. E che sarebbero state
lette al destinatario dal portalettere. Occasionalmente nella busta
c’era una fotografia, allora era una vera festa.
Intanto, il gruppo
abituale dei perdigiorno della piazza se ne stava in piedi, davanti
all’ufficio, a discutere di politica o a scambiarsi gli ultimi
pettegolezzi del paese, insomma a sparlare di gusto, aspettando la
posta. Non per questo rinunciavano ad esprimere giudizi estetici su
una qualche ragazza carina abbastanza temeraria da passare di là.
Erano sempre gli stessi, un gruppo che non cambiava mai. Aspettavano
e non appena il portalettere apriva il suo sportello, subito
cominciavano a chiedergli: “Niente per me?” “Qualcosa per me?”.
Gaetano, con grande pazienza, cercava di soddisfare tutte quelle
richieste che si accavallavano. La loro impazienza, del resto,
alleggeriva in fretta il mucchio di lettere da distribuire. Alcuni
ci rimanevano male, se non c’era posta per loro. Gaetano ne
conosceva alcuni che non avevano ricevuto posta da anni. Si chiedeva
perplesso che cosa mai stessero aspettando: quale parente partito da
tempo doveva farsi vivo? Quale fortuna fantasticata nella mente
doveva materializzarsi per posta?
Prima di
allontanarsi dall’ufficio, Gaetano chiudeva la porta e lo sportello
che dava sulla piazza. Si faceva largo in mezzo a quelli che ancora
restavano davanti all’ufficio e attaccava con i chiodini, sulla
tabella di legno fissata a lato dell’ingresso, gli avvisi del
governo, se ne erano arrivati. Poi iniziava il giro della piazza:
era la prima zona a essere servita. Si fermava davanti alle case che
vi si affacciavano, scambiando chiacchiere e consegnando lettere.
Prometteva di tornare, per leggere la posta o preparare le lettere
di risposta, per quelli che non sapevano leggere e scrivere. Si
sentiva nel proprio elemento.
Capitolo Undicesimo (183-186)
Come sagrestano Gaetano assisteva l’anziano don Ciccio, un amico che
conosceva e amava da una vita. Il prete era diventato parroco di San
Sebastiano quand’era giovane e lì rimase per tutta la sua carriera
di prete. Lui e il padre di Gaetano, Placido, erano venuti in paese
più o meno alla stessa epoca. Era stato don Ciccio a dare
un’educazione scolastica a Gaetano, da bambino e da ragazzo. E
Gaetano assisté don Ciccio all’altare per diciannove anni, da buon
cattolico qual era.
Un’altra attività
di Gaetano, come se non avesse abbastanza da fare con le altre, era
la compravendita di vino. Sua moglie Vittoria, una donna che dovette
sopportarlo una vita, giurava che ne beveva più di quanto ne
vendeva. E le piaceva ripetere, scherzando soltanto a metà, che la
vita del marito si svolgeva tra Dio e il diavolo: la cantina più
vicina (che era poi della sorella di lui, Serafina) si trovava
infatti in una stradina giusto dietro la chiesa di San Sebastiano.
Il risultato di
una giornata di assaggi molto generosi di vino fu che Gaetano si
sentiva un po’ fuori fase servendo a vespro. Dopo le solite
preghiere e il responsorio davanti al Santo Sacramento, nel momento
in cui doveva raggiungere don Ciccio sull’altare e mettergli la
pianeta sulle spalle… se ne andò. Infilò la porta e via. Piantò il
prete che stava sull’altare con le mani alzate in attesa del
paramento, dando le spalle alla piccola congregazione. A un certo
punto, confuso, don Ciccio si girò e subito si mise a chiamare:
“Gaetano… GAETANO!” Ma Gaetano non c’era. Don Ciccio raccolse allora
la pianeta, se la mise da solo sulle spalle e finì in fretta e furia
la cerimonia. Volò fuori della chiesa e attraversò di corsa la
piazza sino alla casa di Gaetano. L’indignazione gli gonfiava il
petto. Voleva una spiegazione per quel comportamento irrispettoso.
Una bella ramanzina si meritava. Ma Gaetano non era a casa, lì non
s’era visto. La paziente Vittoria sospettava che c’entrasse il vino.
Comunque, pensava che non spettasse a lei scusare il marito. Don
Ciccio lo conosceva altrettanto bene, e certamente da più lungo
tempo.
Seguì il prete in
chiesa per cercare Gaetano, pensando che il marito fosse andato a
dormire nella cappella della Madonna del Carmine. Il prete aveva
messo nella cappella un banco molto comodo per l’uso dei pellegrini
e dei parrocchiani. Lì uno poteva sedere e meditare nella
solitudine e nella quiete. E se ne sentiva il bisogno, poteva
sdraiarsi sotto lo sguardo protettivo della Madonna e dormire. Il
prete non ne avrebbe saputo niente. Ma neanche la Madonna aveva
visto Gaetano. I due continuarono a cercarlo in tutti gli angoli
della chiesa. Cercarono con attenzione, ma non lo trovarono. La
chiesa non era così grande da non poterlo scoprire, se fosse stato
lì dentro.
Vittoria spedì il
figlio Alfonso a cercarlo nelle cantine. Il prete lo avvertì: “Non
tornare senza di lui!” Ma nessuno aveva visto il postino. Il ragazzo
rimase fuori fin quasi a mezzanotte, chiedendo a tutti quelli che
incontrava: “Avete visto Gaetano, il portalettere?” Nessuno l’aveva
visto, Gaetano non si trovava da nessuna parte. Alfonso tornò
esausto e sconvolto dall’inquietudine e alla madre disse: “Non
riesco a trovare papà, nessuno l’ha visto.” Don Ciccio, che non era
rimasto ad aspettare il ritorno del ragazzo, era convinto che la
terra gli si fosse aperta sotto i piedi, a quel furfante, e Satana
se lo fosse portato via. “Gli starebbe bene, sarebbe una lezione ben
meritata,” mormorava, mentre si segnava con il segno di croce. Era
frustrato per non poter sfogare la sua rabbia sulla zucca di quel
miscredente in fuga.
La povera moglie
sentiva il cuore mancarle e non sapeva che fare. Nella sua mente
prendeva forma ogni specie di disgrazia. Poteva essere andato a
consegnare una lettera lontano? No, l’avrebbe avvertita. Un
comportamento simile non era da Gaetano, che era molto abitudinario.
Si abbandonò a questo punto con tutte le sue paure alla preghiera.
Stanca e piena di apprensioni, alla fine si ritira a casa. Mentre
sta sdraiata sul letto, senza poter prendere sonno, Vittoria sente
prima uno sbuffo poi un distinto russare. Sobbalza. Si mette a
cercare nella stanza per scoprire da dove provengono quei rumori.
Alla fine scopre che Gaetano giace addormentato nella cassa da
morto. Cassa da morto? Quale cassa da morto? Torniamo indietro
1
La frase tra parentesi è stata aggiunta dal traduttore per chiarire
il meccanismo della corruzione.
1
Una varietà del traìno, ma più corto e dotato di cassetta
coperta per il conducente.
L ‘olmo di
Piazza del Carmine a Montecalvo Irpino
Antica e non
spaziosa
è la piazzetta,
ma le dà grazia
viva un olmo secolare....
Quell’olmo è pari a bussola;
guida i passi
di quanti, stanchi, tornano al paese,
al tramontar del sole.
Ed io ricordo il cinguettio
festoso degli uccelli
e le fresche auree
che lievi a sera carezzano la terra dei miei avi.
Ricordo, ed il rimpianto
m’invade il cuore.
Caro, vecchio olmo
alto, maestoso,
mi par di sentire
il fruscio delle tue foglie,
che era canto
delicato e lieve
Da ‘Ricordi di
un emigrato” di Placido A. De Furia
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