IL DIALETTO DI MONTECALVO IRPINO*
Montecalvo Irpino è situato nell’Alta Irpinia
nord-orientale e la sua parlata presenta
affinità con i dialetti dell’Abruzzo, del
Molise, del Sannio, della Daunia, della
Lucania e della Calabria settentrionale,
aventi tutti come sostrato l’antica lingua
osca, e anche della Sicilia.
Per scrivere i miei testi vernacolari nella
parlata montecalvese, appartenente alla vasta
famiglia del dialetto irpino, dopo attenta
valutazione ho adottato l’ortografia fonetica.
Questa parlata presenta la stessa varietà
vocalica dei dialetti delle aree geografiche
suindicate. La e tende ad essere muta,
come quella francese, e nel finale delle
parole s’avvicina al suono della i,
come in fémmini (donne). La e
aperta, con accento grave, si è conservata,
come ad es. nelle parole bèlla,
facènni, èriva,
èscu,
mèle, fèddra (bella, faccende,
erba, esco, miele, fetta).
La
vocale o può avere due suoni distinti:
aperto, ad es. in ‘ncòppa (sopra),
oppure chiuso come in cócche (qualche).
In finale di parola assume un suono indistinto
tra la o e la u, es. dòppu
(dopo).
La j è semivocale o semiconsonante ed è
associata a delle vocali, come ad esempio
nelle seguenti parole: éja,
uócchji,
vìja,
mìju,
pilìji,
manéja,
ruzzéja (è, occhi, via,
mio, scuse, maneggia, ruzza).
Presente nel dialetto montecalvese è lo
iotacismo, vale a dire quel fenomeno
linguistico per cui la j prende il
posto di una consonante: quello della b,
come nella parole janchijàni,
jancu,
jastéma,
jastimàni
(biancheggiare e bianco dal germ. blank,
bestemmia e bestemmiare dal lat. blasphemare);
quello della d come nelle parole juórnu,
jurnàta,
jurnatiéru
(giorno, giornata e bracciante dal lat.diurnum);
quello della f, come nella parole jatàni,
jàura,
jèttula,
juccàni,
juccanìzzu,
jucchiliàni (fiatare dal lat. flatare, vapore caldo
dal lat. flagrum, verga spaccata di salice per
intrecciare cesti o legare scope dal lat.
flecta, fioccare, forte nevicata e nevicare
lievemente dal lat. floccu); quello della g,
come nelle parole jatta,
jattarùlu,
jéffula,
jilàma,
jilàni
(gatta, gattaiola o erba gattaiola dal lat.
cattu, pezzetto dal fr. gifle, gelata e gelare
dal lat. gelare); quello della h come
nelle parole jalìzzu,
jàsima
(piccola superficie o respiro lieve,
sbadiglio, dal lat. halare).
È
un finto iotacismo quello relativamente alle
parole: jiéncu,
jini, jittàni, jittàtu, jónce, jónta,
juócu, jussu,
justu
(vitello, andare, gettare, debosciato, giunco,
giunta, gioco, diritto, giusto) che derivando
dal latino (juvencus, ire, iectare, iuncu,
iungere, iocu, ius, iustu) iniziano già tutte
con la lettera j o i; jippóne
e jòtta (indumento malridotto dal fr.
jupon o dall’ar. ğubba, sottana, e acqua dopo
la cottura della pasta dallo sp. jota) che già
iniziano per j.
I
verbi all’infinito della prima coniugazione
prendono quasi sempre ni come suffisso
o desinenza finale che diventa à-ni:
magnà-ni,
fà-ni,
assugà-ni
(mangiare, fare, asciugare).
Nei dialetti calabresi e siciliani, per i
verbi all’infinito, si riscontra la desinenza
ri: a Crotone si dice
sbuddàri
(sbucare), e la parola comprende anche la
cacuminale; in Sicilia si dice manciàri
(mangiare). Non la si riscontra per il
foggiano e il napoletano.
Nella parlata montecalvese il suffisso ni
lo si riscontra anche come intercalare in
molte parole che non sono verbi, ma avverbi:
sìni,
nóni o
nóne,
ddràni,
cquàni (sì, no, là, qua).
È
molto frequente il raddoppiamento della
consonante iniziale: Lu ppane, a
Ppasquàle, ci lu ffacéva e cci
lu mmannàva pi Mmingùcciu (Il pane, a
Pasquale, glielo faceva e glielo mandava
tramite Domenico).
È
riscontrabile il fenomeno del betacismo, vale
a dire la b che si sostituisce alla
v: la balìgia (valigia), li
bbìji (le vie), lu bbóle (lo
vuole).
Le
vocali e ed o sono quasi sempre
accentate per differenziarne il suono e
l’accento tonico è indicato nelle parole
tronche e in quelle con più di due sillabe.
Non è presente il rotacismo, vale a dire la
r al posto della d e neppure lo
slittamento del suono della a verso la e strascicata, come si riscontra nella
parlata di Ariano Irpino, grosso comune
limitrofo: rice (dice), rito
(dito), la Marònna ti binirìce (la
Madonna ti benedice); quadrèra (invece
di quadràra, ragazza).
Un
numero ristretto di parole presenta il suono
fricativo, assai frequente nella parlata
napoletana; io lo indico con il gruppo
consonantico shc, come in
shcanàta,
pishcóne,
frishchèttu,
shcattàni,
shcavóne (grossa forma
di pane tondo, grosso masso, fischietto,
schiattare, sedano selvatico).
Il
suono della cacuminale, di tipo occlusivo
palatale, è indicato con ddr ed è
presente nelle parole in sostituzione del
suono liquido della doppia l, come in puddrìdru,
quéddra,
caddrìna,
ìddru,
quiddru ddrà (puledro,
quella, gallina, egli o lui, quello là).
La
cacuminale la riscontrai nel 1988 anche a
Piano Vetrale (SA), simile nel suono a quella
montecalvese.
In
seguito ho appurato che altri paesi dell’Irpinia,
nella cui parlata si adopera la cacuminale,
sono Calitri, Lioni, Montella, S. Andrea di
Conza e Torella dei Lombardi (vedi.
Grammatica del dialetto irpino di Aniello
Russo, Avellino 2004).
Esiste pure nelle parlate sarde e in quelle
calabresi.
Nelle parlate delle varie località della
Sicilia si riscontrano due distinti tipi di
cacuminali, come ad es. nelle identiche parole ìddu e
ìddru (egli o lui),
pronunciate differentemente. Nel primo caso la
lingua assume una posizione occlusiva
interdentale, mentre nel secondo ha una
posizione occlusiva palatale.
Il
suono laringale, d’origine araba, è indicato
con ghj, come in
ghjucà, pi
gghjìni, ghjurnàta,
agghjurdàni
(giocare, per andare, giornata, intorpidire).
La
consonante ‘n, qui preceduta dal
simbolo dell’elisione, può significare in
indicando un luogo preciso, come ad es.’n
casa, ‘n facci, (in casa, in
faccia), oppure la negazione non, come
ad es. ‘n ci va, ‘n zi n’èsce, ‘n ci véne (non ci va, non se n’esce,
non ci viene).
La s e la z sono due consonanti
sibilanti e spesso il suono della s
muta in quello della z: Fònzu pènz’e ppènza, e nun zi fa ccapàce
(Alfonso pensa e ripensa, e non si capacita).
Nella coniugazione dei verbi, come ausiliario,
si usa talvolta il verbo avere anche per
quelle forme in cui in italiano si adopera
l’ausiliario essere: es. àgghju jutu, ha statu, av’asciùtu, ave trasùtu
(sono andato, è stato, è uscito, è entrato).
Il
condizionale non esiste ed è sostituito dal
congiuntivo imperfetto o trapassato; es.: lu ffacéss, ci minéss, ci fussi
minùtu, mi lu ffussi magnàtu
(lo facessi / lo farei, venissi lì / ci
verrei, fossi venuto lì / ci sarei venuto, lo
avessi mangiato / me lo sarei mangiato).
La
prima persona plurale dell’imperfetto
indicativo coincide con la prima persona
plurale del passato remoto; es.: nuj’aspittàmmu,
nuji pigliàmmu, nuji vinnèmmu
(noi aspettavamo / aspettammo, noi prendevamo
/ prendemmo, noi vendevamo / vendemmo).
Relativamente all’ortografia fonetica,
rispetto al 1988, quando pubblicai il libro
Lo zio d’America, con cui avviavo il
recupero creativo della civiltà agro-pastorale
in Irpinia, nei 20.000 versi che ho scritto
negli anni successivi, ho introdotto delle
semplificazioni nella scrittura, da me
ritenute ininfluenti sia per la pronuncia che
per il significato delle parole. Così gli
articoli indeterminativi ‘nu e ‘na
sono diventati nu e
na; le
preposizioni semplici cu’ e
pi’
(con e per) sono diventate cu e pi;
nei verbi la cui vocale finale e è
completamente muta, ho provveduto ad
eliminarla, es.: jètt,
minètt,
facètt,
vinnètt,
finètt,
partètt (andò, venne, fece, vendette,
finì, partì).
* Una versione
ridotta di questo testo è stata accolta nella Grammatica del dialetto irpino di
Aniello Russo, edita ad Avellino nel 2004,
unitamente a un CD-R con la registrazione
della lettura di 20 testi dialettali di vari
paesi irpini.
Zell, 24 novembre
2004
Angelo
Siciliano
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