LA MALVIZZA
La Transumanza, le Bolle, il Grano
INTRODUZIONE
Nell’introdurre questa parte prima, e
di riflesso l’intero scritto con il quale Alfonso Caccese ed io
abbiamo voluto tracciare in grandi linee la storia della contrada
Malvizza del nostro paese, sento di dover chiedere scusa di una
libertà che sto per prendermi. Sta di fatto che mi servirò come
Incipit di un testo il quale per certi versi contrasta con lo
stile ed il taglio formale che di solito si adoperano in scritti
di genere storico.
Stiamo, in effetti, perseguendo
un progetto graduale con cui vogliamo valorizzare di volta in
volta una contrada del nostro paese[1],
mettendo in rilievo e divulgandone gli aspetti del passato che
siano oggi ancora validi e, magari, fattori di arricchimento
culturale e civile anzitutto della contrada, come pure dell’intera
comunità paesana.
So che è molto difficile far
provare ad un estraneo un qualche interesse verso certi luoghi
fuori circuito, e, ancora di più far credere alla particolare
suggestione che promana da essi, anche se gli abitanti del posto
pensano che siano stati importanti, mettiamo, anche per la storia
dell’intero Paese. Perciò, io ho pensato, meglio, mi sono sentito
costretto a ricorrere ad uno stratagemma per dare una buona scossa
agli indifferenti, anche a costo di passare per immodesto:
riportare proprio all’inizio uno scritto che potrebbe essere
ritenuto di taglio incongruo perché para-letterario. Si tratta, in
breve, di un sogno ad occhi aperti[2]
da me fatto nel visitare il sito archeologico di Aequum Tuticum,
il quale si trova vicino ma, per la verità, al di fuori del
confine amministrativo della nostra contrada Malvizza; anche se, è
ovvio sottolinearlo, Aequum Tuticum era un tempo un punto di
irraggiamento politico – culturale non soltanto per la nostra
contrada ma anche per un vastissimo territorio, essendo
probabilmente stata quella città una delle diverse capitali
federali del Sannio antico[3]
.
Questo sito, benché sia oggi
abbandonato all’incuria conseguente a lavori di scavo portati
avanti con nessuno o scarsissimi finanziamenti, può suscitare in
chi lo visiti (per il silenzio in cui è sempre immerso, la
solitudine e la piattezza vasta del terreno aperto su un panorama
di monti che chiudono in grande lontananza l’orizzonte) un
rapimento della fantasia che credo possa compararsi con quello
provato da me, durante un pomeriggio di novembre di qualche anno
fa, a pochi minuti dal tramonto.
“ Le uniche cose che rompevano la
linea piatta dell’orizzonte erano una grande quercia e, poco più
in là, le due tettoie sconnesse degli scavi archeologici che ero
venuto a visitare.
Vedevo arrivare gente da ogni
direzione e anche drappelli di cavalieri tra nuvole di polvere.
Più lontano s’indovinavano carrette cariche di donne e bambini.
Gli stridii degli assi e lo sbattere delle ruote sui sassi
giungevano a ondate sulle folate del vento.
Tra le zolle compatte di terra
scura della piana biancheggiavano frammenti di pietra. Un altro
spruzzo di colore era dato da schegge di tegole e mattoni. Mi
chinai e raccolsi una di quelle schegge, tra le più vicine al
bordo del campo. Stavo percorrendo la striscia erbosa lasciata a
lato dell’aratura dal trattore, cercando di evitare i pani di
terra che erano rotolati sull’erba. La terra e l’erba erano
inzuppate di pioggia ed anche la scheggia che esaminavo senza
scoprirvi niente di interessante era tutta imbrattata di fango
appiccicoso. La striscia d’erba puntava diritto verso una piccola
altura distante qualche centinaia di metri. Era un piccolo poggio
sassoso quasi interamente coperto di rovi. Le pietre che
affioravano dal roveto erano dello stesso tipo di quelle sparse
nel campo: pietre da taglio servite sicuramente come materiale da
costruzione, rimosse chissà quando a formare il poggio e poi
rimaste sepolte sotto la copertura vegetale.
Aggirando questo piccolo rilievo,
ne scoprii un altro di formazione naturale e più alto. Aveva i
fianchi di roccia arenaria ed era coronato da piccole querce.
Dalla cima di questa altura si
vedeva la macchia chiara dell’antico abitato disegnato
distintamente dai frammenti di pietra disseminati nel campo arato
che faceva da sfondo. L’area protetta dalle tettoie era soltanto
una piccola parte di quell’abitato ormai sepolto.
Tenevo quel pezzo di laterizio in
mano, mentre dalla porta orientale della città vidi salire verso
l’altura gente armata di scuri, bastoni, roncole e picche che
portavano alte sulle loro teste. Accanto a me c’era un palco di
tronchi d’albero, una specie di altare. E intorno all’altare
alcuni anziani.
In mezzo alla folla che veniva
verso l’altura spiccava una fila compatta di giovani vestiti di
bianco. Questi giovani arrivarono per primi ai piedi dell’altura
dov’era un recinto chiuso da teloni bianchi come le loro vesti. I
giovani entrarono tutti nel recinto e la folla li circondò subito
da ogni lato, e per un po’ li sommerse di urla e strepiti. Quando
si fece silenzio, gli anziani uccisero sul palco un maiale, che
strillò nella breve agonia tale e quale un uomo colpito a morte.
Raccolsero il sangue in alcune ciotole e aprirono il ventre alla
vittima. Il più vecchio dei sacerdoti infilò un braccio sino al
gomito nel corpo dell’animale e cominciò ad estrarne dei festoni
di viscere, che esaminava attentamente prima di arrotolarsele
intorno all’avambraccio.
L’operazione proseguì per un po’
nel più grande silenzio. Ma presto crebbe un mormorio d’impazienza
nella folla. Allora altri due anziani affiancarono il vecchio e
dopo poco l’operazione delle viscere venne portata a termine. A
questo punto l’anziano che aveva officiato si fece sull’orlo del
poggio e con voce stridula di donna vecchia urlò delle parole che
le folate del vento dispersero intorno. Squarci di qualche formula
rituale, probabilmente, perché la gente continuava a mormorare
impaziente. Alcune facce si voltavano a guardare verso un fronte
compatto di nuvole nere che da un po’ stavano avanzando da
settentrione. All’interno dei cumuli più densi saettavano ogni
tanto le strisce seghettate dei lampi, senza che si udissero i
tuoni, sommersi dal vocio agitato della gente.
Poi i giovani vestiti di bianco
cominciarono a salire sull’altura, l’uno dopo l’altro. Giungevano
davanti all’altare, ognuno di loro di inginocchiava e a quel punto
uno degli anziani gli macchiava il petto usando una frasca
inzuppata nel sangue della vittima. Il giovane che era stato così
segnato si alzava e voltandosi verso la folla mostrava il petto
insanguinato. Ogni volta dalla folla si alzava l’urlo
insopportabile delle donne, nel quale non capii se si nascondesse
un incitamento, uno scongiuro o un lamento.
[1]
- v. la nostra precedente pubblicazione sulla contrada
Tressanti: A.CACCESE – M.SORRENTINO, La Comunità romana di
Tressanti, edita in proprio, Bologna, 2004.
[2]
- Un sogno, alla stregua di quanto faceva Augustin Thierry per
la storia dei Merovingi che ricorreva a narrazioni anche di
tipo letterario, per supplire evidentemente alla rarità dei
documenti per l’epoca da lui studiata, evocandone atmosfere e
psicologie. (V. Récits des temps mérovingiens, Parigi,
1840).
[3]
- Come attesta il termine osco tuticum, da touto
“popolo”. Ma v. E.T.SALMON, Il Sannio e i Sanniti,
Torino, 1985, p. 84.
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