LO ZIO D’AMERICA
di Angelo Siciliano
Presentazione di Mario Sorrentino
Ho già avuto il piacere di presentare
per iscritto, insieme al prof. Giuseppe Frasso3, il volume
di Angelo Siciliano Lo zio d’America. Oggi voglio approfittare
di quest’ulteriore opportunità di parlarne, per integrare con altre
considerazioni, di tipo maggiormente discorsivo e diretto, la
riflessione che cominciai prima che l’opera fosse stampata. Si può
dire che ho visto nascere la raccolta di Angelo. E, come ho potuto, ho
cercato dal principio di dargli il conforto di un parere, magari
attento ma amichevole, un parere che segnalasse una partecipazione. Mi
parve che n’avesse bisogno, perché capii subito che stava tentando
un’operazione di salvataggio culturale, veramente sconvolgente per la
storia poco conosciuta della nostra etnia irpina. In altre aree
culturali etniche italiane, da lungo tempo (e in alcune da sempre) è
stata raccolta e trasmessa per iscritto la tradizione letteraria
locale. Che esista una letteratura, nel significato specifico e alto
del termine (composizioni rigorosamente formalizzate in cui si
manifesta la creatività epica, lirica e drammatica di un gruppo
culturale), anche nelle aree dialettali italiane, è ormai condiviso
ampiamente. La gerarchizzazione di valore, tra lingua letteraria
nazionale (o anche comune) e dialetti, è andata trasformandosi in
specificazione e classificazione di varietà linguistiche di diverso
ambito, ultimamente spesso soltanto sociale, ma tutte parimenti degne
e nobili. Gli anatemi contro la sopravvivenza, per fortuna ostinata,
di certe forme linguistiche (vera e propria demonizzazione, se
ricordiamo la lotta condotta nelle scuole contro i poveri bambini
dialettofoni) sono caduti. Anche perché le lingue muoiono, se
scompaiono i parlanti che a quelle lingue affidano l’espressione dei
loro sentimenti.E così oggi, finalmente, sull’esempio di ciò che si è
già fatto in aree dialettali più fortunate, perché meno colpite dagli
anatemi (tra le quali è senz’altro la vostra trentina, se giudico dal
numero dei vostri poeti), anche in altre aree, quelle che più
duramente avevano sofferto per la guerra di sterminio mossa ai
dialetti, si comincia con qualche baldanza (magari timida ogni tanto e
circospetta) a raccogliere i “sacri testi” e a circondare di consenso,
colui che in quelle lingue inizia a creare o ricreare per iscritto.
Per noi, e non dico soltanto per noi di Montecalvo Irpino (è questo il
nome del paese di Angelo e il mio) ma per noi irpini, cioè per tutti
gli abitanti di quell’isola confinata su un altopiano, tra le montagne
dell’Appennino campano (intorno alle cui rive si sono arenati a volte,
a partire dalla forzata romanizzazione, i conquistatori in
trasferimento verso altri lidi), l’operazione di salvataggio della
nostra tradizione culturale, ridotta a frammenti orali condannati a
scomparire con gli ultimi anziani dialettofoni, l’ha tentata e portata
a buon fine Angelo Siciliano.La sua raccolta è ordinata in sezioni.
Anch’io, nella prefazione al libro, suggerii una tripartizione che
soltanto imperfettamente, mi sembra, corrisponde alla sua. Ad ogni
modo, per semplificare, propongo oggi una bipartizione: una
distinzione tra sacri testi irpini, passatemi quest’espressione
un po’ irriverente per le religioni, ma che, come spiegherò, potrebbe
avere qualche validità, e nuove creazioni.
Materiali tradizionali
Come in un certo posto delle campagne
del nostro paese, un posto chiamato Le Bolle per dirla in italiano, in
cui a causa di esalazioni di metano, credo, o zolfo ribolle il fango e
si espande un odore forte che rende l’aria come più spessa e
irrespirabile, così anche nella sezione che raccoglie materiali
tradizionali vi sono forti odori e sono suggerite emozioni, e
sensazioni a volte brutali ed eccessive. Emerge un sentire arcaico,
sensi che colpiscono e meravigliano. Non è dato ritrovarli di solito
così forti nella letteratura in lingua, né in quella dialettale, se
non ritornando molto indietro nella loro storia. Ad esempio, nella
letteratura del volgare italiano delle origini. Rifacendomi ad una
confidenza dell’autore, dirò che sembra che egli abbia rimosso il
tappo di un cratere ed avviato un’eruzione di materiali incandescenti
che, con esplosioni e dilavamenti, devastano tutto all’intorno. Ho
detto, in un’altra circostanza, che la nostra zona di origine poteva
essere chiamata Terra del silenzio, poiché ad un osservatore
estraneo non ha mai prima d’ora comunicato alcunché del suo sentire,
né della sua particolare concezione del mondo. Tralascio ovviamente di
considerare studi etnografici e folclorici per aree contigue, che
potrebbero essere considerati validi anche per il nostro territorio.
Io voglio insistere sul nostro paese e sul fatto che la raccolta di
Angelo Siciliano è di tipo letterario e scritta. Forse è proprio a
causa di questo lungo silenzio, che ora emergono materiali antichi,
arcaici, i cui equivalenti in altre letterature si sono oralmente
svolti, che so?, intorno al Mille o anche prima e per analizzarli
bisogna ricorrere a modelli di prosodia desueti. Bisogna riparlare di
prosa ritmica (e viene in mente Il Cantico delle Creature e
altre composizioni umbre delle origini); fare accostamenti alle
recitazioni solenni del calendario ecclesiastico (il Venerdì Santo, i
panegirici dei santi, ecc.); ripensare ai novellatori e alla
trasmissione della saggezza tra generazioni, consegnata in modo
gnomico a detti e a “cunti”; ripensare ai canti funebri e alla loro
funzione, oltre che di consolazione, di vero e proprio intrattenimento
degli ospiti, con la narrazione della biografia del morto (lodi
mescolate a bonarie prese in giro). Per accostarmi in modo intimo
all’opera, isolerò una composizione che, secondo me, contiene, più di
altre, elementi arcaici. Arcaismi che consentirebbero comparazioni
etnologiche e di storia delle religioni, poiché sono comuni a
tradizioni, solo apparentemente molto distanti dalla nostra.
Li
‘mbóddre
(p. 91)
Alcuni
luoghi, particolarmente suggestivi o notevoli per altezza, ubertosità
o anche perché orridi, paurosi, spesso nelle credenze popolari si
rivestono di un’atmosfera che, per il diritto o per il rovescio, ha a
che fare con il divino, l’Aldilà. Basti pensare alle varie porte dell’Averno,
per i nostri progenitori latini o latinizzati, agli alti luoghi su cui
si elevano templi, ai boschi sacri, ecc..
Un eminente studioso delle religioni,
Mircea Eliade, in un suo studio, Images et symboles,
Parigi, 1952, propone un’efficace sintesi del simbolismo legato ai
luoghi sacri definendolo con il termine di centro. Il centro,
per Eliade, è il punto di intersezione tra i tre livelli nei quali, in
modo universale, i popoli della terra suddividono il cosmo: il Cielo,
la Terra e gli Inferi. Parlando del centro egli dice: “E’ qui che può
accadere una frattura dei livelli e, nello stesso tempo, stabilirsi
una comunicazione tra queste tre regioni”.
Ora, nel componimento di Siciliano
intitolato Li ‘mbóddre (Le Bolle), è narrato che un taverniere,
che dava da mangiare carne umana ai suoi ospiti, è scaraventato da
Cristo, che passava di là, all’Inferno insieme alla sua taverna. Dopo
di che, in quel luogo, la terra ribolle un po’ per avvertimento ai
peccatori, forse, e un po’ perché è rimasta aperta la via per
l’Aldilà. Per la nostra gente è fuor di dubbio che lì vi sia uno di
questi centri di cui dice Eliade. Lì il divino, l’umano e il demoniaco
(con una particolare commistione di questi due ultimi livelli, se si
pensa all’antropofagia) sono entrati in contatto e restano in
contatto. Perciò, per me Li ‘mbóddre è un testo di alta
rilevanza folclorica e conserva, rivestiti di forme cristiane, aspetti
delle credenze primitive dei nostri antenati irpini. E ciò per
un’altra riflessione legata alla teoria del centro. In ogni cultura si
crede che presso il centro d’intersezione dei tre livelli cosmici, si
manifesti qualcosa del Caos originario. Un qualcosa che, la palude
ribollente delle nostre campagne testimonia molto efficacemente. Un
altro elemento arcaico, il taglio della testa degli ospiti destinati a
rifornire di carne il taverniere, mescola forse contenuti sacrali (il
rituale della mietitura, di popolazioni trasformatesi da cacciatori in
coltivatori?) e, chissà?, storici (l’antropofagia delle grandi
carestie intorno al Mille?). Lascio a voi l’approfondimento della
questione.
Nuove creazioni d’autore
Ho già detto a Siciliano, in altra
occasione, che le poesie d’argomento attuale di questa raccolta non mi
sembrano così belle, come quelle che compone e pensa in italiano. E
ciò perché presumo che egli le abbia soltanto rivestite della forma
dialettale. Mi rimangio in parte questa critica perché, ad una più
attenta lettura dei testi, ho scoperto dei componimenti che, pur
essendo sicuramente di nuova creazione, stabiliscono come un ponte
verso la tradizione e fanno ricircolare del materiale che può avere
valenza anche per il mondo di oggi, in cui forti sono le
preoccupazioni per gli ultimi mutamenti della nostra società. Il
componimento, di cui tento una rapida analisi, riguarda il ruolo della
donna.
Li ffémmine di
lu paese (p. 72)
Il
contenuto di questo testo, riferibile alla tradizione, si configura,
secondo me, come un’istruzione al figlio.
Nei riti d’iniziazione di molte culture
cosiddette primitive, il ruolo di addottrinamento riservato alla
madre, verso il figlio maschio, è molto ridotto. Spesso però è lei che
presenta al figlio il mondo femminile. In questa poesia che adopera
ricordi d’infanzia dell’autore, anche se in modo non dichiarato, è
avvertibile la presenza della madre. Che la presentazione del mondo
femminile paesano sia fatto dalla madre, traspare da una certa
curiosità attenta, soprattutto al modo di vestire, di pettinarsi, a
una certa civetteria degli atteggiamenti descritti che normalmente
sfugge agli occhi maschili.
Nonostante sia un mondo presentato da
una donna, appare in un certo qual modo separato, come posto su un
palcoscenico. Passato in rassegna a gruppi e a figure singole, senza
protagoniste né prime donne; con l’unica distinzione non dichiarata
tra contadine e donne che, con espressione significativa tipicamente
paesana, erano dette di “dinta”, cioè di dentro, del paese opposto
alla campagna. Quest’avverbio, ad ogni modo, non stava ad indicare
l’abitazione, poiché come si sa (tramite Carlo Levi, ad esempio)
abitavano entro le mura del paese anche i contadini. Di “dinta” erano
i signori e i piccoli borghesi, e con quest’espressione si voleva
semplicemente dire che quelle persone non erano costrette ad andare in
campagna, per guadagnarsi da vivere. Vivevano perciò, si può dire,
protette nel chiuso delle case.
La distinzione di classe, soggiacente a
questa poesia, fa operare un’alternanza di presentazione delle figure
femminili. Iniziando dal primo verso e sino al ventottesimo, sono
presentati cinque gruppi più tre ritratti di borghesi contraddistinte
più che altro dal modo di pettinarsi, truccarsi o atteggiarsi. I
giudizi indiretti, ma molto trasparenti sono totalmente negativi. I
ritratti riguardano antipatiche o tipe ridicole.
Dal ventinovesimo al cinquantaseiesimo
verso seguono gruppi e ritratti, e contadine raffigurate in atti
concreti o in azioni emblematiche. È in questa sezione del
componimento che ci è dato di capire, che si tratta di quell’istruzione
al figlio di cui ho detto; di indicazioni per l’orientamento del
figlio maschio, che quanto prima sarà alle prese con un mondo, tutto
sommato pieno di insidie.
Segue una sezione (dal v. 54 al v. 63)
che sarei tentato di definire, di contadine in via di “promozione
sociale” (ma non sempre questa agli occhi dei contadini era giudicata
positivamente). E si parla di mogli o figlie di contadini, padroni
della terra o altrimenti avvicinatisi al mondo piccolo borghese.
Queste donne, in un certo qual modo, copiano modi di fare delle
borghesi, mostrano malizia e ambizione.
Chiude il componimento una tenzone a
parole con un maschio (i paralleli, certamente meno crudi, sono da
ricercarsi nella letteratura italiana delle origini; ad esempio, nella
scuola siciliana). Il contrasto è vinto dalla donna con un buon detto
che mette a posto il corteggiatore sfacciato. E con un’allusione, si
può dire ancora più sfacciata. Aprire la gonna è molto chiaro in
qualsiasi contesto.
Dei tre ultimi versi, cornice mesta e
buia, parlerò tra poco.
Breve
analisi prosodica al componimento sulle donne
I versi, in
prevalenza giambici (quindi di ritmo breve e marcato), hanno un
trapasso di senso a fine verso (enjambement) che procura una
distensione in prosa come, del resto, dappertutto nella raccolta. Vi è
la conservazione del ritmo che però dà solennità. Le parole sono
pesate, hanno una levigatezza di detto gnomico.
Il numero delle sillabe dei versi è
vario e non strutturato. Si oscilla tra l’endecasillabo (ma con
accento libero), il novenario e il settenario. Ma vi sono altri numeri
ancora.
Notevoli le allitterazioni. Nel v. 5,
“fiérru di li fusìlli”; nel v. 6, allitterazione finale, assonanza e
chiasmo combinati insieme: “Dòppu ca ‘ncòpp’a”; altre allitterazioni:
“Cadéni la caniglióla”, “camminàvunu cu li capìddri”, “cócchidùna cu
la cipria”, e ultima, distesa in due versi: “muórtu… ammalùta…
murtificàta.”
In una breve sezione (dal v. 21 al v.
28) vi è una costruzione che, sulla scorta del formalista russo Brik,
chiamerei di tipo ritmico-sintattica. Lo schema fonetico è rinforzato
dalla ripetizione sintattica, anche se con variazione logica delle
dipendenti circostanziali.
A mo’ di conclusione. Da quel mondo
femminile non c’era da attendersi molte gioie o esaltazioni: le donne
del paese potevano essere temibili avversarie, potevano rovinare la
vita. In fondo, però, scatta una fratellanza con esse, mista a
commiserazione, allorché le si fa depositarie della memoria dei Lari,
legandole ad un lutto in molti casi perpetuo.
Il lutto e la morte chiudono il tutto.
Ma questo mondo è quasi evocato per poterlo scongiurare, per
consegnarlo al passato. E’, in fondo, un mondo da cui siamo usciti.
Bologna, dicembre
1988 Mario Sorrentino
Si allegano i testi di Li ‘mbóddre
e Li ffémmine di lu paese analizzati nella
relazione.
I
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