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Professor Mario SORRENTINO

Laureato in Lingue e Letteratura straniere presso l’Università di Bologna. E’ appassionato e cultore di glottologia. Autore di varie pubblicazioni; due di queste dedicate alla sua terra d’origine da cui non ha voluto mai tagliare le radici. Questi i titoli delle pubblicazioni riguardanti Montecalvo (scritte a due mani con Alfonso Caccese n.1958): “ La comunità romana di Tressanti” e “ La Malvizza: la transumanza, le Bolle, il grano”

 

presenta l'opera di LOUIS  A. DE FURIA  The Road From  Ariano Irpino ((Versione Italiana

IPOTESI SUL NOME DELLA COMUNITA’ ROMANA DI TRESSANTI
Nota di conferma

LO ZIO D’AMERICA

di Angelo Siciliano

Presentazione di Mario Sorrentino

Ho già avuto il piacere di presentare per iscritto, insieme al prof. Giuseppe Frasso3, il volume di Angelo Siciliano Lo zio d’America. Oggi voglio approfittare di quest’ulteriore opportunità di parlarne, per integrare con altre considerazioni, di tipo maggiormente discorsivo e diretto, la riflessione che cominciai prima che l’opera fosse stampata. Si può dire che ho visto nascere la raccolta di Angelo. E, come ho potuto, ho cercato dal principio di dargli il conforto di un parere, magari attento ma amichevole, un parere che segnalasse una partecipazione. Mi parve che n’avesse bisogno, perché capii subito che stava tentando un’operazione di salvataggio culturale, veramente sconvolgente per la storia poco conosciuta della nostra etnia irpina. In altre aree culturali etniche italiane, da lungo tempo (e in alcune da sempre) è stata raccolta e trasmessa per iscritto la tradizione letteraria locale. Che esista una letteratura, nel significato specifico e alto del termine (composizioni rigorosamente formalizzate in cui si manifesta la creatività epica, lirica e drammatica di un gruppo culturale), anche nelle aree dialettali italiane, è ormai condiviso ampiamente. La gerarchizzazione di valore, tra lingua letteraria nazionale (o anche comune) e dialetti, è andata trasformandosi in specificazione e classificazione di varietà linguistiche di diverso ambito, ultimamente spesso soltanto sociale, ma tutte parimenti degne e nobili. Gli anatemi contro la sopravvivenza, per fortuna ostinata, di certe forme linguistiche (vera e propria demonizzazione, se ricordiamo la lotta condotta nelle scuole contro i poveri bambini dialettofoni) sono caduti. Anche perché le lingue muoiono, se scompaiono i parlanti che a quelle lingue affidano l’espressione dei loro sentimenti.E così oggi, finalmente, sull’esempio di ciò che si è già fatto in aree dialettali più fortunate, perché meno colpite dagli anatemi (tra le quali è senz’altro la vostra trentina, se giudico dal numero dei vostri poeti), anche in altre aree, quelle che più duramente avevano sofferto per la guerra di sterminio mossa ai dialetti, si comincia con qualche baldanza (magari timida ogni tanto e circospetta) a raccogliere i “sacri testi” e a circondare di consenso, colui che in quelle lingue inizia a creare o ricreare per iscritto. Per noi, e non dico soltanto per noi di Montecalvo Irpino (è questo il nome del paese di Angelo e il mio) ma per noi irpini, cioè per tutti gli abitanti di quell’isola confinata su un altopiano, tra le montagne dell’Appennino campano (intorno alle cui rive si sono arenati a volte, a partire dalla forzata romanizzazione, i conquistatori in trasferimento verso altri lidi), l’operazione di salvataggio della nostra tradizione culturale, ridotta a frammenti orali condannati a scomparire con gli ultimi anziani dialettofoni, l’ha tentata e portata a buon fine Angelo Siciliano.La sua raccolta è ordinata in sezioni. Anch’io, nella prefazione al libro, suggerii una tripartizione che soltanto imperfettamente, mi sembra, corrisponde alla sua. Ad ogni modo, per semplificare, propongo oggi una bipartizione: una distinzione tra sacri testi irpini, passatemi quest’espressione un po’ irriverente per le religioni, ma che, come spiegherò, potrebbe avere qualche validità, e nuove creazioni.

Materiali tradizionali

Come in un certo posto delle campagne del nostro paese, un posto chiamato Le Bolle per dirla in italiano, in cui a causa di esalazioni di metano, credo, o zolfo ribolle il fango e si espande un odore forte che rende l’aria come più spessa e irrespirabile, così anche nella sezione che raccoglie materiali tradizionali vi sono forti odori e sono suggerite emozioni, e sensazioni a volte brutali ed eccessive. Emerge un sentire arcaico, sensi che colpiscono e meravigliano. Non è dato ritrovarli di solito così forti nella letteratura in lingua, né in quella dialettale, se non ritornando molto indietro nella loro storia. Ad esempio, nella letteratura del volgare italiano delle origini. Rifacendomi ad una confidenza dell’autore, dirò che sembra che egli abbia rimosso il tappo di un cratere ed avviato un’eruzione di materiali incandescenti che, con esplosioni e dilavamenti, devastano tutto all’intorno. Ho detto, in un’altra circostanza, che la nostra zona di origine poteva essere chiamata Terra del silenzio, poiché ad un osservatore estraneo non ha mai prima d’ora comunicato alcunché del suo sentire, né della sua particolare concezione del mondo. Tralascio ovviamente di considerare studi etnografici e folclorici per aree contigue, che potrebbero essere considerati validi anche per il nostro territorio. Io voglio insistere sul nostro paese e sul fatto che la raccolta di Angelo Siciliano è di tipo letterario e scritta. Forse è proprio a causa di questo lungo silenzio, che ora emergono materiali antichi, arcaici, i cui equivalenti in altre letterature si sono oralmente svolti, che so?, intorno al Mille o anche prima e per analizzarli bisogna ricorrere a modelli di prosodia desueti. Bisogna riparlare di prosa ritmica (e viene in mente Il Cantico delle Creature e altre composizioni umbre delle origini); fare accostamenti alle recitazioni solenni del calendario ecclesiastico (il Venerdì Santo, i panegirici dei santi, ecc.); ripensare ai novellatori e alla trasmissione della saggezza tra generazioni, consegnata in modo gnomico a detti e a “cunti”; ripensare ai canti funebri e alla loro funzione, oltre che di consolazione, di vero e proprio intrattenimento degli ospiti, con la narrazione della biografia del morto (lodi mescolate a bonarie prese in giro). Per accostarmi in modo intimo all’opera, isolerò una composizione che, secondo me, contiene, più di altre, elementi arcaici. Arcaismi che consentirebbero comparazioni etnologiche e di storia delle religioni, poiché sono comuni a tradizioni, solo apparentemente molto distanti dalla nostra.

            Li ‘mbóddre (p. 91)

 Alcuni luoghi, particolarmente suggestivi o notevoli per altezza, ubertosità o anche perché orridi, paurosi, spesso nelle credenze popolari si rivestono di un’atmosfera che, per il diritto o per il rovescio, ha a che fare con il divino, l’Aldilà. Basti pensare alle varie porte dell’Averno, per i nostri progenitori latini o latinizzati, agli alti luoghi su cui si elevano templi, ai boschi sacri, ecc..

Un eminente studioso delle religioni, Mircea Eliade, in un suo studio, Images et symboles, Parigi, 1952, propone un’efficace sintesi del simbolismo legato ai luoghi sacri definendolo con il termine di centro. Il centro, per Eliade, è il punto di intersezione tra i tre livelli nei quali, in modo universale, i popoli della terra suddividono il cosmo: il Cielo, la Terra e gli Inferi. Parlando del centro egli dice: “E’ qui che può accadere una frattura dei livelli e, nello stesso tempo, stabilirsi una comunicazione tra queste tre regioni”.

Ora, nel componimento di Siciliano intitolato Li ‘mbóddre (Le Bolle), è narrato che un taverniere, che dava da mangiare carne umana ai suoi ospiti, è scaraventato da Cristo, che passava di là, all’Inferno insieme alla sua taverna. Dopo di che, in quel luogo, la terra ribolle un po’ per avvertimento ai peccatori, forse, e un po’ perché è rimasta aperta la via per l’Aldilà. Per la nostra gente è fuor di dubbio che lì vi sia uno di questi centri di cui dice Eliade. Lì il divino, l’umano e il demoniaco (con una particolare commistione di questi due ultimi livelli, se si pensa all’antropofagia) sono entrati in contatto e restano in contatto. Perciò, per me Li ‘mbóddre è un testo di alta rilevanza folclorica e conserva, rivestiti di forme cristiane, aspetti delle credenze primitive dei nostri antenati irpini. E ciò per un’altra riflessione legata alla teoria del centro. In ogni cultura si crede che presso il centro d’intersezione dei tre livelli cosmici, si manifesti qualcosa del Caos originario. Un qualcosa che, la palude ribollente delle nostre campagne testimonia molto efficacemente. Un altro elemento arcaico, il taglio della testa degli ospiti destinati a rifornire di carne il taverniere, mescola forse contenuti sacrali (il rituale della mietitura, di popolazioni trasformatesi da cacciatori in coltivatori?) e, chissà?, storici (l’antropofagia delle grandi carestie intorno al Mille?). Lascio a voi l’approfondimento della questione.

         Nuove creazioni d’autore

Ho già detto a Siciliano, in altra occasione, che le poesie d’argomento attuale di questa raccolta non mi sembrano così belle, come quelle che compone e pensa in italiano. E ciò perché presumo che egli le abbia soltanto rivestite della forma dialettale. Mi rimangio in parte questa critica perché, ad una più attenta lettura dei testi, ho scoperto dei componimenti che, pur essendo sicuramente di nuova creazione, stabiliscono come un ponte verso la tradizione e fanno ricircolare del materiale che può avere valenza anche per il mondo di oggi, in cui forti sono le preoccupazioni per gli ultimi mutamenti della nostra società. Il componimento, di cui tento una rapida analisi, riguarda il ruolo della donna.

 Li ffémmine di lu paese (p. 72)

 Il contenuto di questo testo, riferibile alla tradizione, si configura, secondo me, come un’istruzione al figlio.

Nei riti d’iniziazione di molte culture cosiddette primitive, il ruolo di addottrinamento riservato alla madre, verso il figlio maschio, è molto ridotto. Spesso però è lei che presenta al figlio il mondo femminile. In questa poesia che adopera ricordi d’infanzia dell’autore, anche se in modo non dichiarato, è avvertibile la presenza della madre. Che la presentazione del mondo femminile paesano sia fatto dalla madre, traspare da una certa curiosità attenta, soprattutto al modo di vestire, di pettinarsi, a una certa civetteria degli atteggiamenti descritti che normalmente sfugge agli occhi maschili.

Nonostante sia un mondo presentato da una donna, appare in un certo qual modo separato, come posto su un palcoscenico. Passato in rassegna a gruppi e a figure singole, senza protagoniste né prime donne; con l’unica distinzione non dichiarata tra contadine e donne che, con espressione significativa tipicamente paesana, erano dette di “dinta”, cioè di dentro, del paese opposto alla campagna. Quest’avverbio, ad ogni modo, non stava ad indicare l’abitazione, poiché come si sa (tramite Carlo Levi, ad esempio) abitavano entro le mura del paese anche i contadini. Di “dinta” erano i signori e i piccoli borghesi, e con quest’espressione si voleva semplicemente dire che quelle persone non erano costrette ad andare in campagna, per guadagnarsi da vivere. Vivevano perciò, si può dire, protette nel chiuso delle case.

La distinzione di classe, soggiacente a questa poesia, fa operare un’alternanza di presentazione delle figure femminili. Iniziando dal primo verso e sino al ventottesimo, sono presentati cinque gruppi più tre ritratti di borghesi contraddistinte più che altro dal modo di pettinarsi, truccarsi o atteggiarsi. I giudizi indiretti, ma molto trasparenti sono totalmente negativi. I ritratti riguardano antipatiche o tipe ridicole.

Dal ventinovesimo al cinquantaseiesimo verso seguono gruppi e ritratti, e contadine raffigurate in atti concreti o in azioni emblematiche. È in questa sezione del componimento che ci è dato di capire, che si tratta di quell’istruzione al figlio di cui ho detto; di indicazioni per l’orientamento del figlio maschio, che quanto prima sarà alle prese con un mondo, tutto sommato pieno di insidie.

Segue una sezione (dal v. 54 al v. 63) che sarei tentato di definire, di contadine in via di “promozione sociale” (ma non sempre questa agli occhi dei contadini era giudicata positivamente). E si parla di mogli o figlie di contadini, padroni della terra o altrimenti avvicinatisi al mondo piccolo borghese. Queste donne, in un certo qual modo, copiano modi di fare delle borghesi, mostrano malizia e ambizione.

Chiude il componimento una tenzone a parole con un maschio (i paralleli, certamente meno crudi, sono da ricercarsi nella letteratura italiana delle origini; ad esempio, nella scuola siciliana). Il contrasto è vinto dalla donna con un buon detto che mette a posto il corteggiatore sfacciato. E con un’allusione, si può dire ancora più sfacciata. Aprire la gonna è molto chiaro in qualsiasi contesto.

Dei tre ultimi versi, cornice mesta e buia, parlerò tra poco.

Breve analisi prosodica al componimento sulle donne

 I versi, in prevalenza giambici (quindi di ritmo breve e marcato), hanno un trapasso di senso a fine verso (enjambement) che procura una distensione in prosa come, del resto, dappertutto nella raccolta. Vi è la conservazione del ritmo che però dà solennità. Le parole sono pesate, hanno una levigatezza di detto gnomico.

Il numero delle sillabe dei versi è vario e non strutturato. Si oscilla tra l’endecasillabo (ma con accento libero), il novenario e il settenario. Ma vi sono altri numeri ancora.

Notevoli le allitterazioni. Nel v. 5, “fiérru di li fusìlli”; nel v. 6, allitterazione finale, assonanza e chiasmo combinati insieme: “Dòppu ca ‘ncòpp’a”; altre allitterazioni: “Cadéni la caniglióla”, “camminàvunu cu li capìddri”, “cócchidùna cu la cipria”, e ultima, distesa in due versi: “muórtu… ammalùta… murtificàta.”

In una breve sezione (dal v. 21 al v. 28) vi è una costruzione che, sulla scorta del formalista russo Brik, chiamerei di tipo ritmico-sintattica. Lo schema fonetico è rinforzato dalla ripetizione sintattica, anche se con variazione logica delle dipendenti circostanziali.

A mo’ di conclusione. Da quel mondo femminile non c’era da attendersi molte gioie o esaltazioni: le donne del paese potevano essere temibili avversarie, potevano rovinare la vita. In fondo, però, scatta una fratellanza con esse, mista a commiserazione, allorché le si fa depositarie della memoria dei Lari, legandole ad un lutto in molti casi perpetuo.

Il lutto e la morte chiudono il tutto. Ma questo mondo è quasi evocato per poterlo scongiurare, per consegnarlo al passato. E’, in fondo, un mondo da cui siamo usciti.

 

 

 Bologna, dicembre 1988             Mario Sorrentino

Si allegano i testi di Li ‘mbóddre e Li ffémmine di lu paese analizzati nella relazione.

 

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