E,
finalmente, giunse anche Lo zio d’America, poesie, cunti, nenie,
ballate e detti in dialetto montecalvese, con una raccolta di maledizioni.
Il patrimonio letterario montecalvese si
correda, da ora in poi, di un testo scritto nella nostra lingua
locale.Ciascuno di noi, immagino, attraversa nella propria vita dei
particolari periodi in cui si sente spinto, più o meno inconsciamente, a
ricercare le proprie origini; ci si rende conto, ad un certo punto, che il
momento attuale è, il più delle volte, conseguenza di un processo che è in
moto, e quindi in evoluzione, da secoli, se non addirittura da millenni.Per
rimanere nell’ambito della nostra storia locale, diciamo che, a seconda
dei tempi, delle personali esperienze e delle singole esigenze è venuto
man mano formandosi un interessantissimo patrimonio letterario al quale si
aggiunge, oggi, questa nuova fatica di Angelo Siciliano.Stimolante
sarebbe effettuare uno studio sociale dei momenti in cui sono venute alla
luce le varie opere, ma la cosa richiederebbe troppo tempo.L’interesse
più diffuso, almeno fino a questo momento, era stato ispirato dalla
curiosità per fatti ed eventi più strettamente legati all’evoluzione
storico-politico-urbanistica di Montecalvo, a parte le memorie familiari
di cui sono relativamente ricchi gli archivi privati motecalvesi.Del
1734 è il libro Cronistoria della Riformata Provincia di Sant’Angelo in
Puglia in cui l’Autore, padre Arcangelo da Montesarchio, discorrendo
della nascita del convento di Sant’Antonio ci informa delle origini
medievali dell’antico borgo montecalvese.Del 1736 è la lettera che San
Pompilio Maria Pirrotti scrive al padre di Brindisi chiedendo “notizia
intorno alla fondazione di Montecalvo”.Della fine del XVIII secolo
è il nutrito manoscritto di padre Samuele da Montecalvo, al secolo
Giuseppe Isabella, sulle vicende storiche e politiche montecalvesi dalle
origini ai suoi tempi (appunto fine 1700).Del
1854 è Il Regno delle Due Sicilie descritto ed illustrato ove
l’autore, Filippo Cirelli, nel capitolo “Principato Ulteriore-Montecalvo”,
oltre a fornire notizie sulla storia e sui monumenti di Montecalvo, dedica
anche delle brevi sezioni all’ “Alboricoltura”, all’ “Orticoltura”, alla
“Flora Medica di Montecalvo”, alla “fauna medica”, alla “micetologia”,
agli “insetti nocivi all’agricoltura”, alla “mineralogia”, alle “acque
termali e potabili”, addirittura ai “rimedi popolari” ed a tantissimi
altri interessanti settori, compreso quello delle “qualità morali” dei
Montecalvesi.Nel 1913 il frate francescano Bernardino Santosuosso pubblica
Pagine di Storia Civile di Montecalvo Irpino.Un discorso a parte,
che per ovvi motivi non è possibile fare questa sera, meriterebbe il libro
Ricordi di un emigrato scritto da Angelo Placido De Furia e
pubblicato nel 1958. Per certi aspetti è l’Opera che ha più punti in
comune con quella che oggi presentiamo. Si tratta di una raccolta di
poesie, frutto di ricordi e nostalgie di un Montecalvese emigrato in
america proprio nel periodo dello “Zio americano” oggetto della presente
discussione.Del 1981 è Montecalvo - Album di Famiglia di Antonio
Stiscia e del sottoscritto, nostalgica carrellata di foto d’epoca con una
qualificata didascalia.Nel 1985 viene dato alle stampe il monumentale
Fonti per la Storia di Montecalvo Irpino – Contributo per la
conoscenza storica dei Comuni d’Italia, del compianto Giuseppe Lo
Casale e del sottoscritto.Nel 1987 viene fuori l’ultimo libro,
ultimo in ordine di tempo, s’intende, di questo filone: Montecalvo
dalle pietre alla Storia.Quello che
oggi Angelo Siciliano ci presenta è un lavoro che esula da questo tipo di
ricerca è vero, ma in comune con le produzioni di cui ho detto vi è
l’interesse per la stessa terra e la necessità di trovare alle radici del
proprio essere, sia individuale che di popolo, le motivazioni di fondo e
la forza più appropriata per comprendere e magari correggere il ritmo, lo
stile, gli stessi contenuti della vita che oggi conduciamo.Quando Angelo
mi regalò il suo penultimo libro di poesie Tra l’albero di Giuda e
quello del Perdono, tra l’altro ebbi a scrivergli: “… traspare
in esso una carica straordinaria; nonostante la denuncia di amarezze,
vecchie e recenti, vi vedo un ottimismo di fondo attinto ad una
inesauribile fonte di sicurezza antica”; ebbene questa fonte è raccolta
oggi, in questo libro, in tutta la sua freschezza ed in tutta la sua
carica vitale.La sicurezza è scandita dalla semplicità della narrazione,
dal candore del ricordo pulito, dalla consapevolezza di essere compreso
perché quel mondo narrato è un mondo vissuto, perché quell’Universo di
terra e di miti, di personaggi e di persone, di esperienze e di evocazioni
fantastiche, è patrimonio comune a chi scrive e a chi legge.Come
Montecalvese sento il dovere di ringraziare Angelo perché ha messo a
disposizione di tutti le sue doti di ricercatore, non solo, ma anche e
forse soprattutto, di attento osservatore che pur non alterando la
genuinità del messaggio, e la scientificità del tramandato vissuto, ha
filtrato il tutto nella sua sensibilità artistica che già aveva
caratterizzato le sue opere pittoriche.E
proprio col pennello dell’artista sembrano essere tratteggiate certe
figure (come ad es. quella di Simintiéllu) figure che nella realtà
appaiono minori, ma che in effetti rivestono un ruolo estremamente
importante nella vita del popolo, rappresentando gli emblemi viventi di
certe ataviche necessità liberatorie; l’antica lotta tra il bene e il
male, espressa nella poesia Li ‘mbóddre è narrata con dei tratti
chiari e sicuri, oltre che semplici e lineari; la stessa ingenua
schiettezza traspare dai vari racconti che hanno per protagonisti uomini o
animali, uniti, a volte in binomi di necessità, altre volte solo in
divertenti quadri spensierati, passatempi, come quello di Raffaele il
pecoraio che ingannava il tempo giocando a Tózza ca tózza con il
montone.Lo zio d’America, rappresentante di una larga schiera di emigranti
che in un mondo nuovo inseguono sogni avventurosi di rinascita economica e
che spesso sono travolti dai ritmi di una realtà completamente diversa da
quella d’origine, e che, nonostante i loro gravi problemi di
sopravvivenza, a testa alta e con orgoglio, preparano un “pacco” ricco di
miseria, da inviare ai parenti “poveri”, e dico poveri tra virgolette, del
paese, quello zio d’America, dicevo, ispira nel cuore del lettore una
tenerezza indicibile ed una umana comprensione che la parlata dialettale
non chiude, come erroneamente potrebbe apparire, in angusti limiti
culturali, ma innalza ed esalta in un sentimento universale, comune a
tutte le lingue e a tutte le culture.Analoghe sensazioni suscitano anche
altre poesie come ad esempio Ohji Ma’, Pàtrimu, Tatóne,
ove lontani ricordi perdentisi tra le nebbie autunnali, odorose di olio
fresco, o nel buio del vicolo stretto che portava al casino, si fondono
con esperienze concrete ed ancora attuali di amore smisurato per la mamma,
idealmente simbolo di tutte quelle madri irpine alle quali non a caso
Angelo ha voluto dedicare l’intera opera, “ca ‘nfacci’a li mnèrze di la
Ripa ‘la Cónca”, e questa ripa è molto di più che una semplice
scoscesa nel terreno rappresentando, a mio avviso, la strada non solo di
quelle donne, ma di una intera società, perché no!, di tutto il Sud che da
tanto tempo percorre solo in salita il suo cammino; quei lontani ricordi
si fondono con l’amore di quelle mamme simbolo, dicevo, “ca cu’
lu càudu , cu’ lu cchjòve o cu’ la jilàma”, sta sola da una vita e
pensa sempre, tra le viti e gli ulivi, avendo il cuore fermo ad un’unica
speranza: che il figlio torni. Motivi universali, dicevo, comuni ad ogni
lingua e ad ogni popolo.Quando il ricordo è struggente, quando il
desiderio forte, quando la vita trascorsa non è diventata passato, nel
senso che non è ridotta miseramente ad un album di ricordi, ma ancora
rimane parte integrante, come dicevo all’inizio, del momento attuale, be’,
allora le lezioni ricevute, A la scóla di li puèti (poesia a
pag.146), offerte da scene viventi di vecchi che, seduti al sole, facevano
ceste e di uomini e donne che, affaccendati, si davano voce nell’aia
attorno alla trebbiatrice, di donne alle fontane che, facendo la colata,
parlavano riferendo fatti veri e pure invenzioni, ed il tutto poneva le
ali alla fantasia dei ragazzi i cui corpi rimanevano fermi, quasi
incantati in quell’atmosfera ferma nel tempo, quelle lezioni, e quante
altre, innumerevoli per la verità, fino ad impregnare, forse, ogni poesia
di questo libro, sono così vive, così attuali, così animate, così ardenti
da costituire la sorgente dell’anima e l’essenza stessa del messaggio di
Angelo Siciliano.Come è evidente io non sto presentando il libro seguendo
lo schema delle tre parti in cui esso è diviso. Un’ottima illustrazione in
tal senso, nonché un’analisi per così dire tecnica, scientifica, della
lingua usata, sono contenute nella presentazione e nella prefazione che
precedono la premessa dell’Autore ove, invece, sono contenute le
motivazioni, almeno quelle coscienti, che lo hanno spinto alla
realizzazione dell’Opera.Il mio, si è già visto, è solo un excursus
spontaneo e quasi immediato sull’intero testo, come sulle impressioni che
esso ha suscitato in me; nel suo insieme il libro raccoglie una
complessità ed una varietà di argomenti tali da offrire una infinità di
spunti per studi settoriali che possono spaziare dalla lingua,
dall’etnografia, addirittura alla botanica e questo molto meglio di me può
spiegarlo l’Autore. Al di là di quanto ho già espresso devo sottolineare
che una delle cose che maggiormente mi affascina nell’Opera di Angelo è il
vedere come credenze, leggende, giochi, magia, tradizioni, detti,
sentenze, buone e cattive (le bellissime “Malisintènzie”), fiabe e
giochi, fatica, dolore, soddisfazione, orgoglio, dignità, sconfitte e
vittorie, ed ancora abitudini, usanze, costumi, rimedi ed aspirazioni
sociali, ovviamente nel senso più legittimo, costituiscono un tutt’uno, un
amalgama culturale che poi è lo stesso che dà colore e calore a ciascun
soggetto di quelli elencati, anche se presi singolarmente. Evidentemente è
l’anima del popolo che viene a galla ed influenza quell’opzione di fondo
che in Angelo è rimasta inalterata, nonostante la sua lunga permanenza
fuori Montecalvo.Anzi, io ho la sensazione, ed Angelo può, se necessario,
correggere o smentire, che Egli abbia utilizzato fino in fondo i mezzi
culturali e, se mi si consente l’espressione, gli attrezzi del mestiere,
appresi anche fuori della cultura montecalvese, proprio per recuperare
questa nel modo più autentico, pulito, genuino, schietto, in una parola
nel modo più puro possibile.Con la convinzione di avere appena sfiorato
solo qualcuno dei motivi che il libro Lo zio d’America offre
per ulteriori approfondimenti, concludo con un’ultima considerazione
questo mio breve, ma mi auguro non inopportuno intervento.Quando
rileggeremo qualche testo che riguarda la storia di Montecalvo, magari uno
di quelli elencati all’inizio, lo faremo in modo più caldo e più
affettuoso: al di là delle Porte della Terra, del Trappeto e del Monte,
nell’antica cerchia muraria o nelle dimenticate campagne, ridotte per lo
più oggi a freddi toponimi, potremo rivedere, volendolo, una miriade di
personaggi, reali o fantastici non importa; siano essi “ziji amiricani
cu’ la trippa ròssa e lu cauzóne senza curréja” o “lupi pumpinàri”,
“spìriti” o “uarzùni”, “scazzamariéddri” o “ciucciàri”,
“signùri” o “mamùni”, appartengono tutti allo stesso mondo,
sono tutti espressione di una medesima cultura.Percorrendo via Bastione
dopo aver letto “Lu cuntu di la Pilòsa” (pag.46), spontaneo
affiorerà un sorriso sulle labbra nel ricordare la boccaccesca avventura
di “Cilàrdu e la ciuccia”; calcando i vecchi vicoli ci ritorneranno
alla mente i tristi canti funebri come quello di “Cantu dulurósu” o
“Cóm’agghja fa, tatìllu mìju”; passando per Piazza Vittoria potremo
ricordare l’avventura di Annùccia che, senza volerlo, partecipa alla messa
dei morti, la notte del due novembre, nella ormai scomparsa chiesa del
Purgatorio; passeggiando per giù ai Fossi forse assisteremo ancora al
litigio fra “Pacìccu e zi’ Fidéle” o vedremo “a Caròfino
ch’attacca la frasca pi’ lu vinu ‘nnant’a la cantina di Pirròtta”
e passando per via Trappéto, ritengo che si potrà rispondere
affermativamente alla domanda che Angelo ci pone a pag.27 del suo libro:
“… nu’ vi pare di vidé tanta vècchje cu’ la pannùccia
affàcciat’arrét’a li ppurtèddre?”.
Credo che regalo più bello Angelo Siciliano non
potesse fare a noi Montecalvesi.
Montecalvo, 18 agosto
1988 Giovanni
Bosco Maria Cavalletti
(Presentazione alle ore 18.30 presso la sede della Pro-loco)
1
Edito presso l’editore Menna di Avellino nel 1988: pagine 168, con poesie,
cunti, nenie, ballate, detti e maledizioni in dialetto irpino con
traduzione a fronte; disegni illustrativi dell’autore; totale versi 5.600
circa.
2
Testo inedito di Giovanni Bosco Maria
Cavalletti, docente, scrittore e storiografo.
Si allegano i testi di Lu ziju di
l’America, Li ‘mbóddre, A la scóla di li puèti, Ohji ma’ e Lu cuntu
di la pilósa richiamati nella relazione.